“In Italia abbiamo una legge così stupida che fa considerare i giocatori come dipendenti, per me sono dei liberi professionisti, come succede negli sport americani“. Parole e musica di Maurizio Zamparini, presidente del Palermo, pronunciate contro i giocatori che si erano apertamente schierati a favore di Beppe Iachini in seguito all’ultimo esonero rosanero.
Piccolo (insignificante?) omissis di Zamparini. A parte il fatto che lo status dei calciatori non è certo legato a Leggi esclusivamente italiane, la situazione attuale che dà così tanto potere contrattuale è la stessa che permette ai presidenti come Zamparini di tenere in vita i club e registrare – ad esempio – super plusvalenze come quella fatta nella cessione di Paulo Dybala.
Ma cosa succede realmente negli sport americani rispetto all’Europa? L’approfondimento è il naturale seguito degli articoli di C&F dedicati al Salary Cap con la collaborazione di Filippo Erba, studente di Economia all’Università Cattolica di Milano che negli Stati Uniti ha svolto una ricerca sulle differenze organizzative tra gli sport USA e europei.
L’NBA, come tutte le altre Leghe sportive americane, pone i propri principi di scambio su fattori semplici, efficaci e trasparenti mentre nel mondo calcistico vi sono rapporti che trattano di acquisizioni o cessioni a titolo definitivo, temporaneo, a titolo gratuito, a titolo oneroso, tramite clausole e compartecipazioni che mirano a una trasparenza non tanto lampante.
Nella realtà d’oltreoceano i rapporti in questione vengono svolti tramite le vie della Free Agency, ovvero di quel mercato formato da quei giocatori senza contratto, chiamati Free Agent, convinti del fatto di poter strappare contratti più onerosi di quello precedente. In particolare:
– le Trade, che rappresentano contrattazioni di scambio tra due squadre;
– le Sign&Trade, rappresentate da quelle operazioni in cui una squadra firma una free agent (sign) per poi scambiarlo sul mercato (trade).
In termini calcistici si tratta di un mercato fatto esclusivamente di “parametri zero” in cui un giocatore può essere scambiato con due o tre altri giocatori liberi da contratto.
Non esistono i capricci, le mogli che vogliono andare a vivere in un’altra città, gli sms dell’amico che chiama l’altro amico nella sua attuale squadra.
E non esistono nemmeno le terze parti e i fondi che investono in giocatori. Calciatori che difatto diventano titoli patrimonializzati con un loro capitale in cui è difficile ricostruire tutti gli interessi e le partecipazioni in gioco.
La differenza è tutta lì: il calciatore in Europa non è solo un dipendente ma è una voce importante a bilancio. Quando un club tratta con lui vede soprattutto questo: un titolo che può salire o scendere nel tempo. Il suo ingaggio è solo uno degli aspetti in gioco rispetto alla trattativa complessiva. E spesso non è quello più importante.
Se invece guardiamo all’NBA il trasferimento in solo denaro è esistente, ma anch’esso deve sottostare a una soglia massima, come prevede il Salary Cap con gli stipendi: nell’atto della firma del contratto collettivo, l’Associazione giocatori e i presidenti fissano anche il limite di incassi e di pagamenti che una squadra può effettuare in denaro contante, che per la stagione 2015/2016 il limite è fissato a $3,400,000.
Una cifra evidentemente irrisoria.
L’assenza della forma del prestito nel mercato NBA è di non poco conto: le squadre americane sono tutte partecipi dell’idea che un giocatore di loro proprietà non possa rivestire la figura dell’avversario.
Giusto per dare un’idea concreta vi è una vicenda del Dicembre 2011 quando il trasferimento di Chris Paul, uno dei playmaker più importanti della Lega, ai Los Angeles Lakers fu bloccato per il semplice fatto che i New Orleans Hornets, squadra in cui militava Paul all’epoca, erano senza proprietà, così facendo la franchigia orfana sarebbe rimasta più appetibile agli occhi dei potenziali acquirenti.
Dopo numerose diatribe, Paul finì per accasarsi sempre a Los Angeles, ma dai cugini dei Lakers, i Clippers, i quali, fino all’arrivo di Paul, erano considerati come la barzelletta dell’intera lega statunitense.
Guardando invece sul fronte dell’iscrizione nel bilancio d’esercizio, l’idea di fondo della legislazione europa in materia afferma che una squadra, acquistando un giocatore, acquista le prestazioni sportive dello stesso, il che porta ad iscrivere tale operazione all’interno dell’attivo patrimoniale, come avviene per ogni giocatore presente in rosa, facendo figurare nel passivo il relativo fondo ammortamento di ognuno.
Questo genera – come noto – gran parte delle diatribe sulle valutazioni dei giocatori, dei loro cartellini e delle loro prestazioni. E le note plusvalenze, spesso ingiustificate, che si realizzano sia con campioni affermati che con giovani di belle (o inesistenti) speranze che vengono iscritti per qualche centinaio di milioni nel bilancio del club.
Non è un caso se il FFP ha avuto come primo obiettivo quello di ridurre la dipendenza dei fatturati delle squadre dal player trading (ovvero la compravendita di cartellini o, in termini di bilancio, di attività patrimoniali dei club) in un sistema che tuttavia è rimasto monco e non ha generalizzato la competitività, anzi, ha acuito le differenze tra i top club e il resto del mondo.
Nella legislazione statunitense, invece, il Salary Cap è considerato come una percentuale del BRI (Basketball Related Income), il quale può essere considerato un contenitore dove vengono fatti transitare tutti i proventi derivanti dall’attività svolta dall’NBA, che poi verrano distribuiti, in maniera egualitaria, a tutte le franchigie; semplificando, il tetto salariale è una percentuale dei ricavi delle squadre e, di conseguenza, ogni anno deve essere rinegoziato, per cui tutti i salari distribuiti da una squadra all’interno di una stagione vengono considerati come dei veri e propri costi che i bilanci di tutte le squadre NBA sono in grado di sopportare, perché, nell’eventualità che una squadra non fosse in grado di generare altre fonti di ricavi, tramite i proventi derivanti dal BRI essa è in grado di raggiungere la soglia minima di distribuzione dei salari.
Di fatto l’NBA impedisce alle squadre di gonfiare il proprio parco giocatori così da aumentare il proprio reddito d’esercizio, e, tramite il sistema del Basketball Related Income, compie appieno l’obiettivo di creare i presupposti di stabilità e indipendenza economica, necessarie per l’evoluzione di corrette dinamiche concorrenziali, come quanto si è detto all’inizio.