Da quando nel 2015 la FIFA ha messo fuorilegge le TPO, ovvero le Third Part Ownership (Fondi di investimento, talvolta gli stessi procuratori o qualche familiare del calciatore in questione) molti club hanno dovuto iniziare ad adeguarsi alle nuove regole andando a rivedere i propri rapporti con le suddette Terze parti che detengono quote di cartellini di calciatori.
Qualcosa di simile è accaduto quando le comproprietà sono state abolite nel calcio italiano.
In molti, quando CF – calcioefinanza.it analizzò gli aspetti vincenti del calcio spagnolo in questi anni, enfatizzarono il fatto che le TPO hanno certamente avuto un ruolo non marginale nel momento in cui le società spagnole in crisi necessitavano di andare sul mercato a reperire giocatori da mettere in rosa.
Ma criminalizzare retroattivamente le TPO è fuoriluogo oltre che concettualmente sbagliato.
Innanzitutto perchè la loro messa al bando (FIFA) è datata 1 Maggio 2015 – a conclusione dei lavori di una commissione aperta nel settembre 2014 – mentre l’Unione Europea ha esteso il divieto a tutti gli sport da novembre 2015. Un anno fa. A settembre arrivarono le prime sanzioni.
Nati in Sudamerica, questi meccanismi si sono diffusi soprattutto in Spagna e Portogallo anche per una questione di contiguità culturale e linguistica. Ma un po’ ovunque hanno avuto un ruolo.
Le considerazioni sulla funzionalità e sull’esistenza delle TPO sono discordanti.
Da un lato è forte il credo che tale sistema possa rilevarsi utile allo sviluppo di piccole società che porterebbero, tramite “l’aiuto” finanziario delle TPO, colmare il gap con le grandi squadre mediante l’acquisto di calciatori che non potrebbero permettersi e che gli stessi calciatori non avrebbero possibilità di mettersi in luce in club di “seconda fascia”.
Dal lato opposto si trova chi crede che l’assorbimento “ufficiale” dei TPO all’interno del sistema calcio possa alterare l’integrità delle competizioni e dei campionati, nonché la stabilità contrattuale dei calciatori stessi che potrebbero essere invitati più volte a trasferirsi tra club appartenenti allo stesso fondo per generare provvigioni e foraggiare il mercato.
Spagna e Portogallo si sono da subito schierati a favore della prima idea. Recentemente CF – calcioefinanza.it ha evidenziato come le TPO siano state decisive per il business model dell’Atletico Madrid.
Nel frattempo in Portogallo gli accordi TPO divenivano uno dei pilastri del sistema calcio.
A fine 2013 si stimava che il 36% del “valore di mercato” dei giocatori fosse detenuto non dai club ma da terzi investitori.
L’Italia ha ragionato in maniera diversa: è il paese che ha portato nella contrattualistica del calcio l’isitituto comproprietà.
In questo accordo di “co-ownership” firmato tra i due club, entrambi diventano titolari del 50% dei diritti connessi al calciatore, decidendo poi di risolvere tale comproprietà a favore di uno di loro oppure di cedere entrambi a terzi.
In questo senso è chiaro che anche così si potrebbe “alterare la competizione”.
Del resto la situazione di massima trasparenza è quando un giocatore è di un solo club.
Ogni altra formula ibrida si presta a secondi fini o fraintendimenti. E questo ragionamento può essere allargato a molteplici istituti ad oggi legalissimi: si prenda ad esempio la crescita del valore di Simone Zaza nei bilanci di Juventus e Sassuolo.
La comproprietà è un istituto che poi è stato superato, anche se dall’anno scorso hanno fatto capolino accordi del tipo: “Io ti vendo tizio ma ti corrispondo l’X% al momento della sua rivendita”. Il che fa pensare ad una comproprietà di fatto, mascherata.
TPO e comproprietà (e da un punto di vista di etica sportiva anche i prestiti) sono discendenti dello stesso male sportivo.
Ma mentre in Spagna e Portogallo negli ultimi 10 anni le TPO hanno permesso (proprio come dichiarato) di sostenere la competitività dei club (evidentemente NON SOLO le Tpo, visto i diversi risultati delle squadre dei due paesi, soprattutto in campo europeo), in Italia l’istituto della comproprietà non pare aver funzionato altrettanto bene. Anche se non sono mancate le eccezioni: si pensi al caso Dybala.
Questo è accaduto perchè mentre le TPO agiscono andando a individuare giocatori potenzialmente forti e dalle grandi prospettive (infatti in Inghilterra vennero subito osteggiate – caso Tevez Mascherano del 2007 – perchè agivano nel mercato dei talenti che i club non volevano vedersi sottratto nemmeno parzialmente), le comproprietà (esistono le eccezioni, ma andiamo sui grandi numeri) sono per lo più operazioni di “difesa” del valore di un giocatore.
Perchè si ricorre alle comproprietà, o alle formule ibride in cui una società detiene una qualche forma di diritto sulle prestazioni di un giocatore con non figura nella sua rosa?
Questo accade quando un giocatore non considerato all’altezza (non ancora o non più) di una determinata squadra viene girato ad un’altra, nel frattempo la prima squadra ne ammortizza il valore e la seconda si giova di un giocatore che magari non avrebbe potuto avere.
Così, da anni, i club minori schierano giocatori non di loro proprietà (in tutto o in parte) in attesa di capire il loro reale livello e annacquare (con una certa reciprocità di rapporto tra loro e i club maggiori) quelle che nel breve potrebbero essere forti minusvalenze legate alla sopravvalutazione di un determinato giocatore qualche tempo prima.
Del tutto fuoriluogo, quindi, il discorso denigratorio e giustizialista che si fa quando si addita il club X o Y (sia chiaro, anche in Italia c’è stato ricorso alle TPO anche se in modo non massiccio come Spagna e Portogallo) che ha acquistato il giocatore A in comproprietà con il Fondo B.
Dal punto di vista sportivo partiamo di qualcosa di non diverso da quello che le nostre squadre fanno da sempre. Solo che in Spagna si è guardato a giocatori di prospettiva anzichè a garantire (spesso con operazioni reciproche) club teoricamente rivali dalla svalutazione dei singoli giocatori.
Quel che accadrà in futuro è da vedere e capire. Quel che è successo fin qui invece pare abbastanza chiaro: rivolgersi alle Terze Parti è stato certamente più redditizio in termini sia economici che sportivi che puntare alle partecipazioni sportive incrociate con altri club.
E in entrambi i casi si trattava di giocatori in campo non completamente di proprietà della maglia che indossavano.