Secondo Shelly Palmer, una delle voci più ascoltate nel mondo della tecnologia, «entro una decina di anni il televisore non sarà più lo strumento migliore per guardare le partite di calcio» perché visori 3d e cuffie extra-large renderanno il vecchio schermo obsoleto.
«È in atto una convergenza senza precedenti: tv, telefonia, computer si sono fusi in una sintesi a cui è difficile attribuire un nome specifico» spiega Carlo Freccero, docente universitario e membro del cda Rai. Ne scrive oggi il periodico Style Magazine, che analizza i trend di consumo in atto.
Questa interazione, possiamo ancora chiamarla televisione? Oppure rappresenta l’anello successivo della catena evolutiva? Quel che finora è chiaro è che il palinsesto è morto, ma la tv (soprattutto intesa in senso lato come consumo di contenuti video) sta benissimo. Mentre il consumo di video non è mai stato così vitale come ora.
Mentre 20 anni fa guardavamo i videoclip musicali su Mtv, oggi li guardiamo su YouTube, che è cosa diversa rispetto alla tv.
Già oggi, quasi la metà dei contenuti audiovisivi (il 45 per cento) li guardiamo sullo schermo di un pc, di un tablet o di uno smartphone. «I numeri dicono che il consumo in generale aumenta, mentre quello sul vecchio schermo diminuisce» prosegue Freccero.
Per misurarsi con un tema complesso come il futuro della televisione bisogna innanzitutto distinguere tra mezzo (come guardo) e contenuto (cosa guardo). Se ci si concentra sul mezzo allora sì, è probabile che il televisore finisca in soffitta com’è successo al telefono di casa.
Ma che lo schermo televisivo sia ancora considerato importante lo conferma una ricerca di Ericsson, secondo cui appena l’uno per cento degli italiani ne fa a meno. Un cambiamento però c’è già stato e si chiama on demand. Un tema che per ora non riguarda (o solo marginalmente) gli eventi calcistici che per loro natura sono un prodotto da consumare in diretta.
L’approdo in Italia di Netflix forse non ha segnato una rivoluzione – al momento sarebbero circa 200 mila gli abbonati paganti – ma ha certificato che il cambiamento è in atto anche da noi. Secondo Nielsen il 36 per cento della popolazione italiana connessa a internet, circa nove di milioni di persone, consuma tv on demand, quella cioè che non offre un menu del giorno ma un «magazzino» di programmi da cui attingere.
Una percentuale che è destinata a crescere, soprattutto quando l’Italia avrà adeguato la diffusione della banda larga agli standard europei. «Entro il 2020 il consumo della televisione 2.0, cioè streaming e on demand, sarà sullo stesso livello di quella tradizionale. Almeno negli Stati Uniti: l’Italia seguirà a ruota» dice Aurelio Severino, direttore Tv e media di Ericsson Italia.
E i contenuti? In che modo sta cambiando l’offerta televisiva? I dati di ascolto tratteggiano un Paese ancora fermo agli anni Ottanta: come riportato da CF – calcioefinanza.it i programmi più seguiti nel 2016, come nel 2015, come sempre, sono stati il Festival di Sanremo e le partite di calcio.
Ma i vecchi strumenti di misurazione non sono più sufficienti a fotografare in maniera nitida una realtà in continuo cambiamento. E non è un caso se Nielsen, la società che in Italia cura il panel Auditel, ha sottolineato la necessità di trovare un nuovo sistema che permetta di confrontare realisticamente l’audience tv con quella su internet.
Ma attenzione, la tv non perderà del tutto il suo ruolo di moderno focolare domestico. Secondo Codeluppi «lo manterrà in alcuni momenti specifici: durante il Festival e i Mondiali, le elezioni politiche o eventi particolarmente drammatici saremo tutti lì davanti allo schermo, come una grande comunità immaginaria. Magari col telefono in mano, perché il consumo è diventato più disattento e mentre si guarda si commenta sui social».
La rivoluzione in corso sta infatti scatenando una guerra per la conquista della nuova televisione. Da una parte ci sono gli operatori tradizionali impegnati su due fronti: ampliare l’offerta (Sky sta investendo molto sull’on demand) e coalizzarsi per fronteggiare la nuova concorrenza (l’alleanza fra Mediaset e Vivendi).
Dall’altra quelli legati alla rete, da Amazon a Netflix, che cercano di conquistare mercati e spettatori anche attraverso le produzioni locali. Mentre i provider di telecomunicazioni stanno alla finestra: «Oggi i contenuti video costituiscono il 50 per cento del traffico dati. Nel giro dei prossimi cinque anni supereranno il 70 per cento» dice Severino.
Chi vincerà questa battaglia non è dato al momento saperlo. Come non è ancora chiaro, in un contesto in cui Mark Zuckerberg punta forte sulla realtà virtuale e Tim Cook di Apple scommette sulle app, quale sarà la tecnologia in grado di prevalere sulle altre. Ma di certo possiamo trovarci d’accordo con Reed Hastings, il ceo di Netflix, quando dice che «ai nostri figli non verrà mai in mente di chiedere cosa c’è in tv perché ormai quel mondo è finito».