Quanto guadagnano le calciatrici? Che differenze ci sono in termini salariali, e anche dal punto di vista contrattuale, rispetto ai loro colleghi maschi? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Cesare Di Cintio di DCF Sport Legal, uno studio legale specializzato in consulenza ed assistenza giuridico – sportiva a favore di atleti, dirigenti, società e federazioni sportive.
Avvocato Di Cintio, il tema delle differenze salariali tra uomini e donne è più che mai attuale. I Mondiali francesi di calcio femminile hanno rilanciato il problema: nello sport le distanze sono ancora più nette?
«Il problema è universale, le disparità di salario esistono in realtà in ogni settore e più o meno in tutto il mondo. Nel calcio però, specie in questo particolare momento, il confronto tra uomini e donne risulta di grande attualità. Anche perché veniamo dalla mancata partecipazione degli azzurri al Mondiale in Russia prima di questo appuntamento che è stato invece centrato dalle ragazze. E allora le differenze salariali vengono accentuate. Si tratta di un problema reale e molto sentito. Prendiamo il caso della più forte giocatrice norvegese, Ada Hegerberg. Il suo caso ha fatto molto discutere dopo che ha deciso di ritirare la sua partecipazione dai campionati mondiali proprio per rendere ancora più forte la protesta contro la discriminazione di genere nel mondo del pallone».
Quindi non si tratta di una mancanza solamente italiana?
«Assolutamente no, la disparità salariale tra calciatori e calciatrici non risparmia neanche le giocatrici di altri paesi. Il problema è molto sentito anche in Francia, Germania, Inghilterra e perfino negli Stati Uniti. Tutti campionati dove è vero che il salario medio delle giocatrici risulta più alto rispetto a quello italiano, ma non mancano le situazioni di palese disparità».
Però in Italia il contesto appare molto più complesso: è così?
«Decisamente, c’è una situazione che fa ancora più riflettere. Da noi le calciatrici sono inquadrate nell’ambito del dilettantismo per effetto di una legge, la n. 91/1981 sul professionismo sportivo, che non contempla per le calciatrici uno status da “sportivo professionista”. Non solo, le stesse Norme Organizzative Interne Federali F.I.G.C., hanno previsto un articolo ad hoc, il 94 quinquies, che esclude la possibilità di ogni forma di lavoro autonomo o subordinato per le calciatrici».
E allora i club di serie A come fanno a regolare i rapporti di lavoro con le giocatrici, soprattutto quelle di più alto livello che arrivano dall’estero?
«Fanno sottoscrivere “accordi economici” che non sono veri e propri contratti di lavoro e che hanno un tetto massimo di 30.658 Euro lordi l’anno. Le giocatrici possono poi beneficiare di indennità di trasferta e rimborsi spese che comunque non devono superare il tetto massimo di Euro 61,97 per una massimo di 5 giorni alla settimana».
Si tratta di un limite evidente, come si può fare per superarlo?
«È sicuramente un ostacolo concreto, anche se non potrà resistere alla crescita continua del movimento. Male che vada, prima o poi qualche giocatrice farà come Bosman e aprirà la strada al professionismo. Certo è che al momento il sistema sportivo del calcio femminile non sembra avere le risorse necessarie per garantire ciò che ormai è consolidato a livello maschile. Per arrivare all’effettivo salto di qualità è necessario che il massimo campionato femminile riesca a dotarsi di una governance adatta a gestire la promozione e la gestione degli introiti derivanti prima di tutto dalla cessione dei diritti televisivi, che attualmente è inesistente».