La situazione nella quale il Coronavirus ci ha catapultati è per molti una minaccia, per alcuni una vera e propria catastrofe e per pochi, forse pochissimi, un’opportunità.
Il mondo del calcio sta senz’altro vivendo l’emergenza sanitaria come uno dei momenti più bui della sua storia.
Dove trovare vantaggi durante e dopo l’emergenza COVID-19? Sicuramente attuando piani “b”, “c” o “d” da trovare immediatamente.
Sponsor e broadcaster, da cui derivano i maggior introiti per le realtà del calcio professionistico, potrebbero cambiare il loro modus operandi e potrebbero decidere di ridurre i propri budget destinati a questo genere di investimenti.
Come poter allora trovare nuove soluzioni per cercare di generare nuovi ricavi?
È evidente che anche il singolo calciatore tesserato, anche in base al diverso appeal che può avere sui fan, deve contribuire non solo al conseguimento del risultato sportivo, ma anche ad aumentare la redditività del club dal punto di vista commerciale.
Come può un’azienda nel settore del calcio, e dello sport più in generale, attuare nuove strategie per non esistere esclusivamente la domenica?
Secondo Massimo Pizzo, managing directorItalia di Brand Finance, «l’immagine e la reputazione delle squadre italiane è ancora troppo legata ai soli risultati delle partite».
«Oggi», spiega Pizzo, «solo Juventus, Inter e Milan hanno brand estremamente forti in grado di gestire al meglio eventuali crisi d’immagine dovute ai risultati in campo o ad altro. I club italiani devono fare un salto nella gestione del proprio brand migliorando l’esperienza complessiva dei tifosi».
Una delle strategie più utilizzate è la brand extension, e qui veniamo al punto.
Ogni società può decidere di realizzare nuovi prodotti in mercati in cui già opera e compete (c.d. “line extension“) o in aree ancora non esplorate e quindi completamente nuove per il club (c.d. “category extension“).
Sebbene con caratteristiche diverse, una strategia di questo tipo consentirebbe alle società di allargare il loro mercato, di creare nuove opportunità e di generare nuovi introiti. Sfruttare il brand in modo alternativo porterebbe indubbiamente a una crescita per la società.
La brand extension richiederebbe, in primo luogo, la scelta dei prodotti sui quali applicare eventualmente il marchio; su questo fronte occorre una ricerca applicata, bisogna unire le forze e aumentare il know how.
Sarebbe essenziale conoscere i propri supporter e sapere che esiste lo spettatore che si limita a guardare il live domenicale, così come c’è quello che se ne interessa solo una volta ogni tanto.
La brand extension è già oggi realtà. Un esempio italiano e uno straniero: in primo luogo, occorre citare la Juventus.
Il club presieduto da Andrea Agnelli, come noto, ha incominciato investendo nello street wear con “Icon Collection”, fino al mondo del pet shop; categoria, quest’ultima, che peraltro non conosce crisi, con un assortimento di ventidue referenze accessoristiche dedicate a cani e gatti.
Poi, naturalmente, l’esperienza inglese del Manchester United, il quale ha utilizzato un modello tipicamente americano, non a caso proprietaria è la famiglia Glazer dal 2005, che ha puntato sulla diversificazione del business, proiettando lo sfruttamento commerciale del nome Manchester United sulla brand extension.
Lo United è stato un pioniere nel mondo del marketing su scala globale: dai Red Café sparsi in diverse parti del globo, fino ai Megastore, alle banche, ai canali Internet, ai Red Cinema, e così molto oltre. Tutto è legato al marchio del club, rendendolo forte e presente in ogni aspetto della vita dei fan.

Ma questo è solo l’inizio. Il futuro deve portare sempre più novità di engagement. Servono nuove esperienze. Altro ruolo chiave lo gioca il “co-branding”. Pasta, Distillati e per fino giochi da tavola possono arrivare nelle nostre case con il marchio di Milan, Inter e altre società.
Inoltre possiamo ampliare l’evoluzione del brand dentro altri sport, come per esempio ha fatto la Juve nell’NBA, dove la società bianconera ha organizzato un evento ( “Juventus Night”) all’interno del famoso club 40/40, locale situato all’interno del Barclays Center, casa della franchigia NBA dei Brooklyn Nets.
Il programma prevedeva la trasmissione di Juventus – Inter proprio come “antipasto” alla partita dei Nets. Per poi successivamente vendere le canotte Juventus in stile NBA. Dopo qualche mese, i suoi effetti si sono visti anche con “nuovi influencer”. Prima Donovan Mitchell, poi Richardson, entrambi si sono messi in posa con la maglia bianconera.
L’internazionalizzazione del brand è fondamentale. Paul Rogers, responsabile per i media digitali dell’AS Roma, dice che lo scopo è “far diventare la Roma la squadra italiana preferita di un tifoso del Manchester United”.
Quante volte ci è capitato di scegliere la squadra per cui tifare in un viaggio all’estero? L’amore folle per la nostra squadra del cuore, potrà comunque farci prendere qualche sbandata ogni tanto?
Più di un terzo della popolazione mondiale, è in qualche modo, stakeholder di una forma di sport. Per il calcio questo rapporto sale al 54% (in Thailandia all’87%). In Italia gli stakeholders dello sport sono circa 43 milioni di cui 37 milioni relativi al calcio.
Abbiamo ancora un mercato di possibili nuovi stakeholders da raggiungere, ma soprattutto si deve evitare di perdere quelli ottenuti dopo questi importanti mesi di assenza.
La via della “brand extension” necessita un cambio radicale di mentalità nella gestione della società, la quale deve assomigliare sempre più a un’azienda strutturata e capire che l’investimento deve essere differenziato, quello sul calciatore di fama mondiale rimane solo uno dei tanti possibili.
Servono società con più professionisti, esperti di altri settori, dotate di manager appartenenti a generazioni capaci di guardare oltre l’ostacolo – anche oltre il terribile virusche occupa in questo momento le nostre giornate – e capire che la domanda «Se il calcio non avesse più bisogno di fenomeni?», per quanto volutamente provocatoria, non è più un tabù.
Articolo a cura di Filippo Baldini