Superlega memorie difensive
Florentino Perez e Aleksander Ceferin (Foto: Mike Kireev via Onefootball)

Ricchi (ma pieni di debiti) contro poveri (ma virtuosi), blasone e fan base contro merito sportivo, grandi contro piccoli. La narrazione della vicenda Superlega, anche per gli evidenti limiti emersi nella strategia di comunicazione dei fondatori della Super League, si è fin da subito incentrata attorno a queste contrapposizioni.

Da una parte i cospiratori, la “sporca dozzina” per usare le parole del presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin, dall’altra i custodi dei valori tradizionali del calcio che hanno fatto muro per tutelare lo status quo in nome dell’interesse dei tifosi.

Se i sogni dei tifosi, la possibilità dei piccoli club di ambire (anche solo sulla carta) al tetto d’Europa, la tutela dei campionati nazionali, sono state le ragioni del no, i fautori del sì hanno fatto leva sulla situazione economica generale del calcio europeo, aggravatasi ulteriormente a seguito degli effetti della pandemia e non più sostenibile senza un incremento importante dei ricavi.

Ma dietro alla retorica, alle parole d’ordine dei diversi campi, le ragioni della contrapposizione tra i due fronti sono state prevalentemente economiche e di potere.

Lo si può comprendere meglio guardando a quanto accaduto nel 2019, quando Ceferin, lo stesso Ceferin che si è strenuamente opposto alla Super League, aveva proposto d’intesa con gli stessi grandi club una riforma delle coppe europee che avrebbe penalizzato fortemente i campionati nazionali e in cui il tanto citato merito sportivo non era certo al centro del format proposto.

Il progetto Super Champions del 2019

Allora l’Uefa con il consenso dell’ECA, ai tempi ancora guidata da Andrea Agnelli, aveva proposto di trasformare le coppe europee in un vero e proprio campionato continentale, da disputarsi nei week end al posto dei tornei nazionali.

L’obiettivo? Lo stesso alla base del progetto della Super League, fare crescere i ricavi, grazie ad un format considerato di maggiore appeal per i fan e i broadcaster di tutto il mondo, in modo da avere più risorse da distribuire ai top club, alle prese con la costante crescita dei costi legati ai calciatori, ma anche alle altre squadre e soprattutto alle federazioni nazionali, che sono quelle che eleggono i vertici dell’Uefa e sono dunque alla base del potere di Ceferin.

Di qui l’allineamento di interessi, in quella fase, tra top club e Uefa. Da un lato i grandi club avrebbero ottenuto un format capace di generare, almeno in teoria, quei maggiori ricavi di cui erano (e sono ancora) alla ricerca.

Dall’altro l’Uefa non avrebbe perso il controllo dei flussi finanziari e la possibilità di stabilire i criteri di distribuzione della mutualità e di finanziamento degli stakeholders (si pensi ai 240 mila euro erogati nel 2019 alla Football Supporters Europe, l’associazione dei tifosi che più si è data da fare per contestare il progetto Super League)

Quando Ceferin faceva asse con Agnelli contro i campionati nazionali

Il format proposto dall’Uefa di Ceferin, avallato dall’ECA guidata da Agnelli, e discusso in via preliminare in tutte le sedi ufficiali prevedeva l’introduzione di:

  • una sorta di campionato di prima divisione a livello continentale (la cosiddetta Super Champions) cui avrebbero partecipato 32 squadre. Questo nuovo torneo avrebbe preso il posto della Champions League;
  • una seconda divisione europea, sempre a 32 squadre, al posto dell’Europa League;
  • una terza divisione europea a 64 squadre, al posto della prossima Conference League.

Delle 34 squadre iscritte al nuovo campionato europeo per club o Super Champions, 24 vi avrebbero partecipato di diritto in base al fatto di aver partecipato alla stessa competizione l’anno prima, 4 sarebbero state promosse dalla seconda divisione e solo 4 si sarebbero qualificate in base al piazzamento nei campionati nazionali.

Le 32 squadre della Super Champions sarebbero state suddivise in 4 gruppi da 8 squadre (anziché 8 gruppi da 4 squadre), in modo da disputare più partite, e le prime 16 si sarebbero qualificate come oggi alla fase ad eliminazione diretta.

Il rischio, paventato dalle leghe nazionali, sarebbe stato quello di una perdita di centralità ai campionati nazionali, non solo perché relegati durante la settimana per lasciare spazio alla nuova competizione nel week end, ma anche perché non più fondamentali per la qualificazione alla principale competizione europea per club. Con tutto quello che ne sarebbe conseguito in termini di commercializzazione del prodotto campionato nazionale.

Solo per limitarsi al mercato italiano, secondo uno studio commissionato dalla Lega di Serie A alla società di consulenza Oliver&Ohlbaum, la proposta dell’Uefa avrebbe avuto effetti catastrofici sul massimo campionato nazionale.

Secondo le stime di O&O, a causa della centralità della nuova competizione Uefa, il valore dei diritti audiovisivi della Serie A si sarebbe potuto ridurre del 35% nel breve medio termine per arrivare ad un crollo del 70% nel lungo periodo.

Di qui il fuoco di sbarramento delle leghe nazionali e in particolare della Liga di Javier Tebas e della Premier League, la cui proiezione internazionale sarebbe stata fortemente colpita dal varo del nuovo super campionato europeo, andando ad impattare sui conti dei club inglesi esclusi dalla nuova competizione e in ultima istanza sulle casse dell’erario britannico (un fattore chiave, quest’ultimo, anche nella recente opposizione di Boris Johnson alla Super League).

Allarme rosso sui conti

Come è ormai evidente, il problema di trovare una ricetta in grado di far crescere i ricavi del calcio di vertice con ricadute positive anche sui movimenti nazionali, allora sollevato direttamente dall’Uefa d’intesa con i grandi club, non è stato risolto.

Anzi, la pandemia ha solo aggravato drasticamente la situazione.

Secondo stime dell’ECA nella stagione 2019/2020 il giro d’affari del calcio europeo (senza considerare i proventi della gestione del parco calciatori) si è ridotto di circa 7 miliardi di euro a causa del Covid.

Fonte: elaborazione Calcio e Finanza su dati Deloitte e stime ECA. Dati in milioni €

Una situazione destinata ad aggravarsi ancora di più nella stagione 2020/2021 giocata sempre a porte chiuse.

A risentirne è stato tutto il sistema calcio, anche se l’impatto per i top club è più evidente considerato il maggiore volume d’affari.

Per limitarsi ai soli 12 club fondatori della Super League il deficit di ricavi (al netto delle plusvalenze) causato in gran parte dal Covid è stato di poco inferiore al miliardo di euro.

Ricavi club 2019/2020 2018/2019 Variazione
Barcellona 715,1 840,8 -125,7
Real Madrid 691,8 757,3 -65,5
Manchester United 580,4 711,5 -131,1
Liverpool 558,6 604,7 -46,1
Manchester City 549,2 610,6 -61,4
Chelsea 469,7 513,1 -43,4
Tottenham 445,7 521,1 -75,4
Juventus 397,9 459,7 -61,8
Arsenal 388,0 445,2 -57,2
Atletico Madrid 331,8 367,6 -35,8
Inter 291,5 364,6 -73,1
Milan 148,5 206,3 -57,8
TOTALE 5.568 6.403 -834,3

Fonte: elaborazione Calcio e Finanza su dati Deloitte. Ricavi al netto delle plusvalenze in milioni di euro

Questo si è tradotto in un aumento del rosso di bilancio aggregato di circa 621 milioni di euro.

Risultato netto 2019/2020 2018/2019 Variazione
Barcellona -97,0 4,5 -101,5
Real Madrid 0,3 38,4 -38,1
Manchester United -25,6 21,09 -46,69
Liverpool -45,3 46,9 -92,2
Manchester City -147,0 11,2 -158,2
Chelsea 44,8 -104,2 149
Tottenham -70,5 76,52 -147,0
Juventus -89,7 -39,9 -49,8
Arsenal -52,6 -30,2 -22,4
Atletico Madrid 1,8 13,7 -11,9
Inter -102,4 -48,4 -54,0
Milan -194,6 -145,9 -48,7
TOTALE -778 -156 -621,51

Fonte: elaborazione Calcio e Finanza su bilanci societari. Dati in milioni di euro.

Una situazione di emergenza riflessa anche nei debiti dei 12 club.

DEBITI 30 giugno 2020
Tottenham -685,5
Manchester United -524,4
Juventus -390,0
Inter -322,7
Barcellona -317,6
Real Madrid -170,0
Atletico Madrid -111,1
Milan -103,9
Arsenal -76,8
Manchester City -51,9
Chelsea 19,3
Liverpool n.d.
TOTALE -2.734,6

Fonte: KPMG Football Benchmark

Di qui l’esigenza di far partire subito la Superlega, spartirsi i 3,5 miliardi messi a disposizione da JP Morgan attraverso una linea di credito garantita dai futuri ricavi della nuova competizione, offrendo comunque al sistema calcio europeo una quota di mutualità superiore a quella messa attualmente a disposizione dalla Uefa grazie ai ricavi di Champions ed Europa League.

La Super League prometteva infatti di riversare sul sistema un floor minino di almeno 10 miliardi di euro su un orizzonte temporale di 23 anni: 434,78 milioni di euro l’anno, contro i 161 milioni redistribuiti annualmente dalla Uefa.

Un aspetto, quest’ultimo, non certo di seconda importanza, finito però fuori da un dibattito incentratosi più sulla mancanza di meritocrazia del format della Superlega.

La contrapposizione tra grandi e piccoli club

Demonizzare i top club, attribuendo loro tutti i mali del calcio moderno, rischia tuttavia di far perdere di vista il quadro d’insieme.

Se il vertice della piramide soffre, infatti, a pagarne le conseguenze anche i club più piccoli e a cascata tutto il movimento, che ancora oggi è finanziato (su come funziona la mutualità, sia a livello europeo sia a livello italiano, sarebbe necessario aprire un dibattito serio) dai ricavi generati grazie ai grandi club e al loro ampio bacino di tifosi.

Nei giorni caldi dello scontro sulla Superlega è stato più volte citato il caso dell’Atalanta, portata come esempio di club virtuoso dal punto dei vista dei conti, che ha saputo costruire una realtà sportiva capace di essere competitiva in Italia e in Europa.

Ma anche club modello come l’Atalanta senza l’indotto generato dai top club farebbero fatica.

In base ad un’analisi effettuata da Calcio e Finanza sugli ultimi tre bilanci della società controllata dalla famiglia Percassi emerge che le operazioni di mercato realizzate nel tempo con Juventus, Inter e Milan (i tre club italiani fondatori della Super League) hanno di fatto consentito al club bergamasco di chiudere in utile gli ultimi tre esercizi.

Non per niente il CEO dell’Atalanta, Luca Percassi, pur giudicando negativamente il progetto della Superlega ha usato sempre toni distesi nei confronti dei tre grandi club italiani, rivali sul campo ma di fatto i suoi principali clienti nelle operazioni di calciomercato.

«Il calcio è dei tifosi. Ma è una falsità assoluta che l’Atalanta abbia mai voluto chiedere l’esclusione dalla serie A delle tre italiane aderenti alla Super League, che comunque si fonda su principi sbagliati. Milan, Inter e Juventus sono società importantissime per il calcio italiano», ha affermato Percassi, sottolineando come la vicenda Superlega sia stata «uno scossone da cui raccogliere opportunità dal punto di vista del calcio italiano».

Ma il ruolo dei top club è centrale anche per quanto riguarda i ricavi da stadio e quelli da diritti tv dei piccoli club.

In base ai dati raccolti dalla Lega di Serie A e elaborati da O&O, nella stagione 2018-2019, l’ultima giocata completamente con gli stadi aperti, l’audience cumulata (totale tv + totale spettatori allo stadio) di Inter, Juventus e Milan ha rappresentato quasi la metà dell’audience complessiva della stessa Serie A.

Nel report, datato giugno 2019, predisposto dalla società di consulenza O&O, veniva inoltre fatto notare come l’appeal commerciale del campionato, anche a livello internazionale, fosse legato all’interesse suscitato da sfide quali Juventus-Inter, Juventus-Milan e Milan-Inter.

Non solo, come già evidenziato su Calcio e Finanza in un’analisi relativa al peso di Juventus, Inter e Milan sull’economia della Serie A, la presenza dei top club è fondamentale anche per i ricavi da stadio delle medio-piccole.

Le soluzioni sul tavolo

«Nel 2024, quando entrerà in vigore il nuovo format della Champions League, saremo tutti morti». L’allarme del presidente del Real Madrid, Florentino Perez, principale promotore della Superlega, sullo stato di salute del calcio europeo è un monito che riguarda tutti: non solo i top club superindebitati ma anche la base della piramide.

Archiviato il progetto della Super League, sebbene sul mercato dei capitali sia ormai emersa una pluralità di soggetti (fondi di private equity, banche d’investimento) interessati a finanziare nuove progettualità, sullo sfondo non si intravedono ricette alternative capaci di dare al sistema calcio quella sostenibilità di cui tutti parlano.

La leva del controllo dei costi, specie quelli relativi a stipendi e cartellini dei calciatori, deve essere azionata, ma difficilmente verranno prese soluzioni efficaci a livello centralizzato per limitare le spese dei club.

Ancor più difficile ipotizzare un patto tra gentiluomini che coinvolga i tradizionali big spender del mercato, considerato che ancora oggi per essere competitivi a livello sportivo e commerciale i top club hanno bisogno di nuovi campioni.

Allo stesso modo non sembrano essere praticabili soluzioni basate su aiuti pubblici al sistema, difficilmente giustificabili agli occhi dell’opinione pubblica proprio alla luce degli ingaggi astronomici di molti calciatori che rappresentano la principale ragione di disequilibrio del sistema.

E’ però evidente che debba essere trovata (e in tempi rapidi) una soluzione a livello di sistema, che sappia venire incontro alle richieste dei top club di generare maggiore ricchezza, e che preveda una nuova mutualità a livello continentale e nazionale, più ricca ma soprattutto più trasparente rispetto a quella odierna.

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