Negli ultimi anni i fondi di private equity hanno investito oltre 13 miliardi di dollari nello sport. Dal calcio al basket, dalla pallavolo al motociclismo, ma anche rubgy, automobilismo, arti marziali: l’industria sportiva piace ai nuovi “attori”. Da questo punto di vista, spiega Il Fatto Quotidiano in un approfondimento, i fondi di investimento di private equity più attivi nel mondo dello sport sono statunitensi (ne sa qualcosa il Milan, gestito dal fondo Elliott).
Nell’estate 2021, Dyal Capital Partners ha acquistato partecipazioni passive in alcune squadre di basket NBA. La prima franchigia a far entrare un private equity sono stati i Phoenix Suns, reduci dalle Finals perse dello scorso anno e oggi in testa alla classifica NBA. Ad oggi l’operazione più significativa risale però al 2016: la vendita per 4 miliardi dell’UFC (The Ultimate fighting championship) – la più importante organizzazione mondiale di arti marziali miste (Mma) – al consorzio guidato dall’agenzia Endeavore che include 3 fondi di private equity tra cui KKR.
Ma come nasce l’interesse di questi fondi? «Col coronavirus le società hanno registrato un crollo dei ricavi e da questa situazione di crisi si sono generate delle opportunità, perché gli asset svalutati sono diventati più appetibili per investitori che già in passato avevano mostrato interesse per questo settore», ha spiegato al Fatto Quotidiano Francesco Bollazzi, docente di Corporate Finance all’Università Cattaneo e direttore dell’Osservatorio Private Equity Monitor.
«Prima le società sportive, in particolare quelle calcistiche, erano considerate come un buco nero per le finanze di presidenti e famiglie proprietarie. Con l’ingresso dei private equity la gestione cambia completamente: i fondi hanno la capacità di rendere le società più efficienti, possono ottenere credito a condizioni più vantaggiose e, soprattutto, riportano un allineamento di interessi tra il management e la proprietà, perché spesso il management ha quote nel capitale della società», dice invece Emidio Cacciapuoti, partner dello studio legale McDermott Will & Emery, specializzato in diritto tributario, private equity e M&A.
Negli Stati Uniti lo sport viene considerato un business a tutti gli effetti, ora anche in Italia si sta arrivando a percepirlo come un investimento finanziario grazie all’indotto che gli gira intorno (diritti tv, merchandising, etc.) e la possibilità di costruire attorno alla società sportiva una serie di attività che consentano di avere delle entrate. L’interesse dei fondi «per il mondo dello sport è dunque legato anche al fatto che le società sportive permettono di avere flussi di cassa stabili nel tempo», aggiunge Bollazzi.
CVC Capital Partners ha investito 320 milioni di sterline nel rugby inglese, e ha fatto il colpo grosso coi motori: nel 2016, dopo aver venduto il motomondiale dieci anni prima, ha ceduto la Formula 1 a Liberty Media con un rendimento del 500%. Affidarsi a questi fondi, però, non esclude rischi e gli obiettivi sono sicuramente distanti da quelli dei grandi proprietari del passato.
Il primo da considerare è che un obiettivo del private equity è contribuire alla crescita dell’azienda in cui investe per “monetizzare” al momento giusto il suo investimento. «Hanno piani strategici di massimo 10 anni. Il tutto con tempistiche precise: nei primi 4 anni si investe, nei successivi 2 si raccoglie i ricavi e infine si vende o, nel peggiore dei casi, si interrompe il flusso di liquidità e si lascia la società in balia degli eventi», spiega Cacciapuoti. Non solo. Va considerato inoltre che in caso di risultati sportivi positivi può nascere un gioco al rialzo, con il tentativo di vendere a prezzi gonfiati, alimentando così la bolla finanziaria sportiva, anziché curarla.
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