Football Affairs, l'opinione di Luciano Mondellini

L’anticipo di ieri sera nel derby londinese tra Crystal Palace e Arsenal ha dato il via alla Premier League 2022/23. Un campionato che, come scritto più volte su questa testata, sembra sempre più volere staccare gli altri tornei per qualità, importanza e numeri economici e diventare una sorta di NBA del calcio. Ovvero un torneo nel quale giocano la stragrande maggioranza dei migliori giocatori e allenatori sul mercato.

Se si eccettua infatti il trio delle meraviglie di stanza a ParigiMessi, Neymar e Mbappé (strapagati dai petrodollari degli sceicchi qatarini) – e qualche star che gioca in SpagnaLewandowski, Vinicius e Benzema – sono sempre di più i grandissimi calciatori che scelgono l’Inghilterra: da De Bruyne a CR7 (per ora), da Salah a Van Dijk, spendendo inoltre cifre rilevanti anche per giocatori di medio livello come Cucurella e Richarlison (oltre 60 milioni per entrambi). E ogni anno il numero di top player basato oltre Manica sembra salire sempre più: quest’estate per esempio sono arrivati in Premier Erling Haaland (approdato al Manchester City) e Darwin Nunez (arrivato al Liverpool). Mentre chi non è stato ritenuto più all’altezza delle squadre più forti, una su tutte gli Sky Blues di Pep Guardiola, ha comunque trovato sistemazione internamente, vedi Gabriel Jesus (Arsenal) oppure Raheem Sterling (Chelsea). Nei fatti dei calciatori che hanno fatte veramente bene in Inghilterra ha lasciato la Premier soltanto Sadio Mané (andato al Bayern), mentre i ritorni in Italia di Lukaku e Pogba hanno più il sapore di voler ritrovare lo smalto dei tempi migliori dopo le non certo felici esperienze nella terra di Albione.

A corredo di questo vi è inoltre il fatto che anche i migliori allenatori scelgono sempre più le squadre inglesi: Klopp, Guardiola, a cui si è aggiunto dall’anno scorso aggiunto anche Antonio Conte e quest’anno anche Erik Ten Hag. Tra i top a livello internazionale forse solo Mourinho, Simeone e Ancelotti non allenano in Premier.

Ovviamente tutto questo non è legato una improvvisa simpatia dei migliori giocatori e allenatori per il roastbeef o la pioggia britannica, ma è dettato dai lauti stipendi che i club di Premier riescono a pagare in virtù della loro forza economico-finanziaria.

Soldi e non solo: come nasce il dominio della Premier

Questa testata segue quotidianamente le vicende economiche della Premier League dandone notizia con dovizia di particolari. Non occorre quindi ripercorre tutti i record economici della lega inglese. Basti pensare che nel solo 2020/21 le sei principali squadre inglesi (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Manchester City, Manchester United e Tottenham) hanno registrato ricavi per 3,23 miliardi di euro al netto del player trading: le sei big della Serie A (Atalanta, Inter, Juventus, Milan, Napoli e Roma) nelle stagioni 2019/20 e 2020/21 hanno messo insieme 2,94 miliardi di euro di ricavi. In sostanza, le big della Premier League in una sola stagione incassano quanto le big della Serie A fanno in due anni.

Per altro solo in termini di diritti tv l’ultima classificata guadagni di più della prima in Serie A. Il Norwich ha portato a casa per la stagione 2021/22 più di 100 milioni di sterline (oltre 116 milioni di euro): si tratta del 38% in più rispetto a quanto incassato dall’Inter, la prima in questa graduatoria per la Serie A. Soprattutto la maggioranza dei club di Premier ha il bilancio in utili e quindi i lauti salari pagati ad allenatori e giocatori sono sostenibili in virtù delle forze economiche dei club e diventano automaticamente investimenti e non spese.

È evidente che per noi italiani questo non può che suscitare una certa invidia. Non foss’altro che per almeno due decenni nel recente passato – sicuramente dal 1985 al 2005 – il Belpaese ha avuto indiscutibilmente la palma del torneo più bello del mondo. Il nostro primato era però basato sul vecchio sistema del mecenatismo, ovvero i club non guardavano tanto alle perdite di bilancio pur di incrementare la forza tecnica. Tanto il proprietario ultimo – gli Agnelli, Moratti o Berlusconi -, ripianava poi le perdite tramite i proventi derivanti dalle loro attività industriali. La leadership inglese, frutto anche di tante proprietà made in USA, è invece basata su numeri di bilancio che nella maggior parte dei casi sono in utile, a parte qualche eccezione. Insomma il modello inglese è sostenibile a differenza di quello italiano di qualche decennio or sono.

Questo detto però numeri non sono sufficienti a spiegare la primazia inglese. Anzi in un certo senso sono la conseguenza di un’attitudine manageriale, molto americana, che è sempre volta al miglioramento del prodotto offerto. E che in nome di questo non ha paura di abbracciare innovazioni. Anche normative.

Sul campo secondo molti osservatori un match di Premier League è un prodotto migliore di uno della stessa equivalenza nelle altre leghe. Tutti i broadcaster infatti sono d’accordo che la velocità alla quale si gioca in Inghilterra, la mancanza di pause dovuti ai pochi interventi arbitrali, gli stadi sempre pieni e non certo da ultima le abilità tecniche dei giocatori rendono un match di Premier League più facilmente vendibile sui mercati di tutto il mondo che non uno di Serie A o di un altra lega europea.

Ma la di la delle questioni tecniche, che sono importantissime, è l’impostazione generale che è volta al miglioramento del prodotto Premier un po’ come negli Usa la Nba è sempre attentissima a migliorare la proprie partite. In questo senso in Premier non si ha paura di prendere le best practice da altri sport.

L’ultimo esempio è la notizia emersa in settimana che la Premier League è pronta a rendere pubbliche le registrazioni delle conversazioni tra arbitri e VAR dopo le partite. La pubblicazione avverrebbe su YouTube dopo i match del massimo campionato inglese poiché i legislatori non consentono le trasmissioni in diretta.

L’obiettivo è aumentare la trasparenza sulle decisioni arbitrali e l’amministratore delegato della Premier League, Richard Masters, ha confermato che l’idea ha avuto ampio sostegno. Una pratica presa a prestito dalla Major League Soccer statunitense, il cui capo del settore arbitrale è l’ex direttore di gara inglese Howard Webb che tornerà in Premier League come nuovo capo degli arbitri. Negli States vi è una revisione delle decisioni, incluso l’audio che viene pubblicato su YouTube.

Ma rimanendo in Inghilterra è una pratica ormai in uso da qualche anno nel rugby (altro sport popolarissimo nel Regno Unito) dove addirittura le discussioni arbitrali sono aperte al pubblico in diretta sia allo stadio che in televisione. Può piacere o non piacere ma è indubbia l’attenzione del management della Premier a tutto quanto contribuisce a migliorare il prodotto.

Non solo, perché l’attenzione nei confronti dei tifosi non sarà solo in termini di trasparenza sul campo, ma anche nelle scelte delle società: tanto che la FA ieri ha introdotto nuove norme per cui servirà il voto favorevole dei tifosi per poter permettere a un club di modificare il proprio logo o i colori della maglia casalinga. 

Calcio femminile, il nuovo asso nella manica per la Premier

Ma il nuovo asso nella manica del calcio inglese potrebbe essere il pallone femminile. Secondo molti osservatori il successo della nazionale di Sua Maestà nel recente Europeo femminile potrebbe avere un effetto volano su tutto il movimento in rosa. La giocatrice del Totthenam Karys Harrop ha scritto una lettera aperta alla giocatrici della nazionale (lei non era stata convocate nell’ultima kermesse) spiegando che “non c’è mai stato un momento più eccitante per il calcio femminile in Inghilterra come ora e di non poter stare nella pelle per vedere come il settore sarà tra dieci anni” sottintendendo una grandissima crescita del movimento. In settimana per esempio in un giorno solo sono stati venduti tutti i biglietti per l’incontro che l’Inghilterra giocherà in ottobre a Wembley contro le campionesse del mondo degli Stati Uniti.

In effetti secondo molti osservatori inglesi, il calcio in rosa è almeno in Inghilterra sul punto di vivere un vero e proprio boom. Non solo perché i tifosi di un club sono naturalmente portati a tifare per l’equivalente femminile della squadra maschile, ma soprattutto perché si può aprire un universo ancora inesplorato di persone che guardano al calcio. Chi ha visto la finale di Wembley contro la Germania non ha potuto non notare l’amplissima presenza femminile sugli spalti (più delle già tante che affollano gli impianti durante la Premier maschile). Ma soprattutto, coma ha sottolineato il Guardian questa settimana, ora la scommessa sarà coinvolgere “i milioni di ragazze che non hanno visto la partita”.

Insomma se il seguito eccezionale avuto dalla nazionale si riverbererà almeno in parte sulle partite del campionato femminile, allora i club inglesi avranno trovato una ulteriore ed enorme fonte di fatturato. Se il movimento crescerà come spreano in molti, si potranno se non raddoppiare ma quasi i ricavi da matchday per i club con il vantaggio che i costi di una rosa femminile non sono nemmeno avvicinabili a quello di un roster al maschile. E aprire un impianto per un match non costa praticamente nulla se il ritorno di pubblico è importante.

Non a caso in settimana i club della Women’s Super League inglese (WSL) – che include tutti i grandi club della Premier maschile – hanno chiesto con forza una veloce separazione della Football Association (la federcalcio inglese). Il motivo è che i club temono che l’ente governativo non sarà capace di capitalizzare al meglio il successo della nazionale delle Leonesse agli Europei.

In particolare i club vorrebbero nominare un Ceo con grandi esperienze manageriali per sfruttare il momento e negoziare al meglio il prossimo ciclo nei diritti tv. Secondo il Daily Mail infatti la FA, che ha la proprietà della WSL e che vorrebbe lanciare una società ad hoc nel 2023, avrebbe declinato un’offerta da 183 milioni di dollari da parte di una fondo di private equity per acquistare la WSL, separarla dalla Fa e dare vita a una sorta di Premier League al femminile. La baronessa Sue Campbell, direttrice del calcio al femminile in seno alla FA, ha smentito le cifre spiegando che il divario tra l’offerta e la previsione della nuova società della FA è di 30 milioni di dollari. “Abbiano nominato consulente Banca Rothschild e ci hanno consigliato di non accettare per il momento. Non vogliamo lanciare una società indipendente sino a quando non saremo sicuri possa stare in piedi in termini finanziari”, ha spiegato la baronessa.

I club però spingono e hanno paura che la FA si lasci sfuggire il momento propizio per strappare condizioni migliori. In particolare la WSL sta entrando nel secondo anno del contratto 2021-2023 con Sky e la BBC per i diritti tv del valore di circa 7 milioni di sterline e l’anno prossimo questo contratto andrà negoziato di nuovo. In questo quadro i club pensano che un CEO più esperto postrà negoziare cifre ben più alte (rispetto a un esponente della FA) se inizierà a lavorare subito.

Insomma a ben guardare sembra di rivedere lo scisma tra FA e i club negli anni novanta del secolo scorso, scisma che portò al varo della Premier League maschile. E dal quale la stessa Premier ha inizato il suo volo verso la palma di miglior torneo al mondo.

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