Zeman che squadra tifa
(Foto: Gabriele Maltinti/Getty Images)

Zdenek Zeman si racconta nell’autobiografia scritta con Andrea Di Caro, “La bellezza non ha prezzo”, che racconta le oltre mille panchine e battaglie di un allenatore che negli anni si è trasformato in icona. «Ho visto tutto. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi Miramare dove la padrona era anche la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto e da poveri diavoli di periferia con cravatte improbabili. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina…», narra il boemo a proposito della sua carriera da allenatore.

Sulla Cecoslovacchia comunista: «Odiavo i comunisti. Come li odiava mio padre, medico. Al piano di sopra abitava il capo del partito di Praga 14, il nostro distretto. Papà talvolta urlava dalla finestra del bagno la sua rabbia contro il regime. Ogni tanto qualcuno spariva», le parole dell’allenatore, riportate da Il Corriere della Sera.

Poi, una rivelazione quantomeno curiosa sulla squadra per cui fa il tifo: «Sono sempre stato juventino. Da piccolo andavo a dormire con la maglia bianconera». E quando gli vengono ricordati gli scontri con il club bianconero, Zeman risponde: «Con la Juve di Moggi, Giraudo e Bettega. Ma la Juventus non comincia e non finisce con loro. Era la squadra di mio zio Cestmir Vycpálek: il più grande talento del calcio cecoslovacco prima di Pavel Nedved, che portai in Italia. La differenza è che Nedved, lavoratore maniacale, voleva allenarsi pure il giorno di Natale; mio zio invece amava le gioie della vita. Era stato a Dachau, e il lager l’aveva segnato. Ma mi dicono fosse birichino anche prima».

Lo zio Cestmir divenne allenatore della Juve. «E vinse due scudetti consecutivi, nel 1972 e nel 1973. Ero a San Siro quando il giovane Bettega segnò il gol di tacco al Milan. Esultai. C’erano Haller, Causio, Capello. Ricordo i derby: sulla panchina del Toro sedeva Giagnoni col colbacco…».

Impossibile non ripercorrere i tempi del Foggia, quando fu coniata la parola “Zemanlandia”. «Erano appena stati promossi in B. Il primo anno arrivammo ottavi, il secondo vincemmo il campionato. Signori-Baiano-Rambaudi fecero 48 gol». Era il 1990. Il 9 novembre dell’anno prima era crollato il Muro. «Il presidente del Foggia, Casillo, mi caricò sul suo aereo privato e mi portò a Praga. Rividi mio padre, mia madre, mia sorella, e mi pareva di averli lasciati il giorno prima. Tutte le mie cose erano lì dove le avevo lasciate: i palloni, la mazza da hockey. Mi sono sentito felice».

Zeman fu colui che denunciò l’abuso di farmaci nel calcio. La Juve finì sotto processo. «Ma solo perché a Torino c’era un magistrato coraggioso, Guariniello. Io ho puntato il dito contro il sistema, non solo contro la Juve, che aveva molti seguaci. E il problema non erano solo i farmaci. Erano anche i passaporti falsi. Era anche il condizionamento degli arbitraggi. Era anche lo strapotere della finanza».

«Al Nord c’era l’alleanza tra Juve e Milan; l’Inter ne era esclusa, e cercava di entrare nel sistema pure lei. Altre squadre, dal Parma alla Lazio al Perugia, erano in mano alla Banca di Roma: Tanzi e Cragnotti ne uscirono rovinati, come pure Gaucci. Che fece in tempo a caricare il suo Perugia a pallettoni, per far perdere lo scudetto del 2000 alla Juve, sotto il nubifragio», ha aggiunto.

Tornando al campo, anche i tempi di Pescara produssero grandi risultati: «Immobile aveva fame. Insigne aveva talento. Verratti aveva bisogno di trovare la posizione giusta. Faceva il trequartista o la mezzala; lo impostai da regista davanti alla difesa. Dove gioca ancora adesso, nel Psg e in Nazionale».

Poi, un pensiero sulla demolizione di San Siro: «No. Meglio semmai abbattere l’Olimpico: la partita si vede male per colpa della pista d’atletica, che si usa una sera l’anno. L’Olimpiade? E’ nella migliore delle ipotesi uno spreco, nella peggiore un’occasione per rubare. Come lo fu Italia ’90. Come temo saranno i Giochi invernali di Milano e Cortina».

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