Superlega modelli USA
(Foto: JBAutissier/Panoramic, via Onefootball)

Dopo il clamore suscitato, non solo nel mondo dello sport, dall’annuncio inaspettato della creazione di una Superlega europea da parte di 12 club “scissionisti”, e l’altrettanta repentina retromarcia dopo appena 48 ore, è evidente la nuova competizione sia stata creta soprattutto per esigenze economiche dei club. I cui bilanci, già fortemente in sofferenza, sono stati ulteriormente appesantiti dagli effetti della pandemia. Una bomba che ha colpito un palazzo già pericolosamente barcollante.

Non c’è dubbio che la situazione economica dei club sia estremamente difficoltosa, specialmente per i più ricchi, che si sono trovati ad affrontare “vecchi” costi di gestione, rappresentati dai contratti in essere dei loro calciatori, e dai costi legati alla loro compravendita (acquisizione dei diritti pluriennali e commissioni dei procuratori), potendo però contare su ricavi fortemente ridotti a causa appunto della pandemia.

Tuttavia, il problema dell’equilibrio di bilancio era già evidente ben presente: la pandemia ha reso più evidente l’instabilità dei modelli di business preesistenti, causando problematiche relative soprattutto alla liquidità dei club, e accelerando, a detta degli “scissionisti”, la necessità di cambiare lo status quo.

Una competizione nata da un’esigenza di bilancio è una competizione nata male: essa non avrebbe risolto il problema, lo avrebbe soltanto rinviato nel tempo. È già successo: a partire dagli anni Novanta, la crescita dirompente dei ricavi televisivi prima e dei ricavi commerciali dopo, ha permesso ai club di disporre di risorse sempre maggiori, che in larghissima parte sono state destinate all’acquisto dei calciatori, evidentemente ben oltre le capacità di spesa dei singoli club, con pochissime eccezioni.

Il calcio di vertice, oggi, è ben descritto dalla metafora del buco nero che assorbe sempre più risorse, e più ne assorbe, più ne richiede, in un circolo vizioso senza fine.

Perché avrebbe dovuto essere diverso con la Superlega? È facile prevedere che, anche in questo caso, le maggiori risorse disponibili sarebbero state presto assorbite dalla crescita dei costi, ritornando ancora una volta al punto di partenza.

D’altro canto, non si possono tacere le colpe delle istituzioni.

La trasformazione del mercato dei diritti tv e dei diritti commerciali, insieme alla introduzione del Fair Play Finanziario, istituito per limitare le perdite dei club, hanno portato ad una fortissima polarizzazione delle performance economiche e quindi sportive.

La Champions League attuale è una competizione appannaggio dei soliti noti, nella quale pochi club si disputano le fasi finali della competizione. Le eccezioni a questa “sorte” sono entusiasmanti ma sempre più rare. Anche se prevede la partecipazione per meriti acquisiti sul campo, le modalità di accesso alla competizione, i criteri dei sorteggi, la posizione di “rendita” acquisita nei campionati nazionali da molti club (è piuttosto frequente ormai osservare vittorie in serie degli stessi club anche in campionati storicamente più equilibrati), e non ultima la modalità di distribuzione delle risorse, hanno ridotto la Champions League un torneo sostanzialmente “chiuso”, difficilmente scalabile dai club fuori dalla cerchia ristretta dei soliti noti.

La UEFA ha sempre difeso il modello sportivo delle proprie competizioni, e ancora più convintamente in questa occasione, soprattutto ponendolo in contrapposizione a quello delle leghe statunitensi: tuttavia occorre chiarire alcuni aspetti. È vero che le leghe americane sono “chiuse”, per cui non è possibile accedervi se non su invito, però all’interno di questo sistema chiuso, è assicurato (o si prova ad assicurare) il massimo equilibrio competitivo possibile attraverso vari strumenti (salary cup, draft). Il modello europeo, invece, per linea di principio aperto, di fatto è divenuto il giardino di casa di pochi eletti.

Quindi da una parte un sistema chiuso con un maggiore equilibrio fra i partecipanti, dall’altro un sistema aperto con poco equilibrio. Due soluzioni (apparentemente) opposte, che assicurano l’una possibilità di vittoria per più club, tuttavia non selezionati per meriti sportivi, ma sempre presenti senza qualificazione, l’altra una chance di vittoria per pochi, selezionati per “meriti sportivi” praticamente intangibili. Due modelli, quindi, solo apparentemente opposti, ma di fatto non tanto dissimili nella messa a terra.

A ben vedere, i cinque posti concessi annualmente per criteri di merito (non ben definiti) nella Superlega, “equivalgono” e forse superano i posti che la Champions League assicura ai club minori. Sarebbe ipocrita pensare, alle condizioni attuali, che la Champions League premi il merito sportivo (dei club minori) in misura maggiore da quanto proposto dalla Super League.

Anche i calciatori, o più propriamente i loro costi in generale, sono parte in causa del problema, anzi sono il problema: i loro stipendi, le commissioni riconosciute agli agenti, nonché il costo legato dell’acquisto dei diritti delle loro prestazioni sportive, rappresentano di gran lunga la più importante voce di spesa dei club, definendo, per un numero crescente di club, un rapporto fra costi e ricavi ben oltre la soglia di sicurezza.

Nessuno ha puntato la pistola alla tempia dei proprietari, come spesso viene detto a difesa dei calciatori, tuttavia è evidente che il loro comportamento e quello dei procuratori, le richieste di ingaggi sempre più alti, abbiano inciso pesantemente nel determinare l’esplosione dei loro compensi. Anche in occasione della pandemia, è stato estremamente difficile contrattare una riduzione dei compensi dei calciatori, se non in rare eccezioni (ottenendo al massimo una posticipazione di alcune mensilità), che hanno di fatto continuato a guadagnare come se il mondo attorno a loro non fosse cambiato affatto.

La responsabilità della sostenibilità del calcio moderno, nonché della sua competitività da riportare a livelli accettabili, anche, ma non solo, come volano di crescita dell’intero sistema, non può che ricadere su tutte le parti in causa: club, istituzioni sportive e calciatori, ma anche dei tifosi, i quali dovrebbero capire l’importanza dell’equilibrio economico dei club per i quali tifano.

Oggi, soprattutto alla luce degli effetti della pandemia sulle economie di tutto il mondo, è necessario mostrare il coraggio di percorrere l’unica strada possibile, che non può non essere che la riduzione significativa e strutturale dei costi, prima ancora che l’aumento dei ricavi. L’alternativa, cioè, non può essere incassare di più per spendere di più, ma limitare alla fonte il problema. Potremmo definirla una “decrescita competitiva” (Le dichiarazioni rilasciate dai protagonisti dei 12 club, invece, pongono l’accento esclusivamente sull’aumento non rinviabile dei ricavi per far fronte allo squilibrio dei conti, senza accenno alcuno alla riduzione dei costi).

Occorre, quindi, sfruttare l’occasione della pandemia per ripensare tutto il sistema, avendo come stella polare la ricerca del massimo equilibrio, economico-finanziario e competitivo, due elementi necessariamente dipendenti l’uno dall’altro. Non basta affatto tornare, cioè, alla situazione precedente, caratterizzata da profondi e crescenti squilibri.

La Superlega non era di certo la soluzione, ma nemmeno il ritorno allo status quo. Serve andare oltre: occorre, cioè, correggere le profonde distorsioni e gli squilibri sempre più evidenti che hanno di fatto trasformato (evidentemente in senso negativo per chi scrive) il calcio come lo abbiamo conosciuto.

A tale scopo, alcune (utopistiche) proposte:

  • maggiore equità nella redistribuzione delle risorse fra i club a livello delle competizioni nazionali ed internazionali, prevedendo più ampi margini da destinare ai meccanismi di solidarietà per i club minori;
  • numero predefinito di acquisti in sede di mercato spendibili in un numero stabilito di stagioni sportive, con un numero maggiore di slot a disposizione per i club che devono “rincorrere”;
  • riduzione del numero di squadre che prendono parte ai campionati nazionali, al fine di renderli più competitivi e quindi più attraenti; liberare date per un numero maggiore di partite per le coppe europee (alla luce della neo approvata riforma della UCL dal 2024), e per valorizzare le coppe nazionali (sul modello della FA Cup), che più frequentemente danno visibilità a club “minori”.
  • tetto alle spese per il parco giocatori (sul modello del salary cup), con multe per coloro che sforano tale tetto, da redistribuire ai club più virtuosi;
  • riduzione del raggio di azione degli agenti e maggiore regolamentazione delle loro commissioni da parte dei club.

Nel celebre film del 1968 “La sporca dozzina”, i militari coinvolti nell’azione di sabotaggio lottano dapprima solo per sé stessi, poi, una volta in campo, danno il tutto per tutto per i loro compagni e per combattere contro l’oppressione nemica. L’auspicio è questo: che anche il finale di questo “film” sia lo stesso.

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epidemiologo, appassionato di numeri. Si può ragionare senza? No, basta solo lasciarli parlare!