Il campionato di Serie A si avvia a vivere un week end elettrizzante nella corsa scudetto che a cinque (sei per l’Inter) giornate dalla fine vede ancora tre squadre – Milan, Inter e Napoli in ordine di graduatoria – ancora in lizza per il titolo nazionale. Ma da martedì le coppe europee torneranno protagoniste e presenteranno il conto al nostro calcio che vede impegnate nelle semifinali delle tre competizioni soltanto una squadra: la Roma nella neocostitutita Conference League, ovvero la manifestazione meno importante delle tre in termini tecnici (anche se sta ottenendo un notevole riscontro di interesse sopratutto grazie alle capacità mediatiche e tecniche dell’allenatore della Roma Josè Mourinho e del grande affetto della tifoseria giallorossa per la sua squadra)
Il calcio, d’altronde, è uno sport a punteggio basso e pertanto può succedere che in una partita possa vincere la squadra che ha giocato peggio. A differenza di disciplina quali rugby o pallacanestro dove l’alto punteggio solitamente premia i migliori nel football può bastare un gol segnato su palla inattiva per ottenere una vittoria anche non meritata.
Nel medio periodo però i valori tendono a venire a galla e non a caso difficilmente una grande competizione viene vinta da una squadra non presente nei lotti dei favoriti alla partenza.
Nel lunghissimo periodo poi i valori e l’organizzazione di squadra alla base dei grandi successi lasciano spazio a qualcosa di ancora più aziendale: l’organizzazione dei vari movimenti calcistici e dei club che ne fano parte.
In questo quadro non stupisce come l’Italia per la seconda volta consecutiva non sia riuscita a qualificare una sua squadra nei quarti di finale della Champions League, la massima competizione europea. Per non parlare delle semifinali dove l’ultima apparizione è stata quella della Roma nel 2017/18. E non deve stupire come ancora una volta Inghilterra e Spagna dominino la scena: entrambe hanno due semifinaliste in questa edizione.
DALLE BIG 5 ALLE BIG 2
Il sito spagnolo Euros y Balones ha analizzato l’andamento della UCL negli ultimi dieci anni mostrando quante squadre ogni nazione abbia portato ai quarti di finale di Champions lega e spiegando numeri alla mano come le famose Big 5 – le cinque grandi leghe d’Europa, ovvero Inghilterra, Spagna, Italia, Germania e Francia – siano nei fatti ora le Big 2: ovvero Inghilterra e Spagna. E la tendenza sarebbe ancora più marcata se si eccettua il dato eccezionale del 2020 quando la Champions causa pandemia si concluse in maniera non normale: tramite un mini torneo di Lisbona che vide qualificarsi per le semifinali due squadre francesi e due tedesche. E per le italiane lo scenario è ancora più tetro se è vero come vero che Andrea Traverso, responsabile delle licenze UEFA, ha spiegato che i nostri club “sono quelli più indietro per rientrare nei paletti del nuovo Fair Play finanziario”. Tradotto: dovranno fare più sacrifici sul mercato.
Un caso? Non proprio. Premier League e La Liga sono infatti le due leghe gestite meglio in Europa e i risultati dei loro club ne sono la conseguenza. Si basano su modelli diversi e si muovono sulla falsariga di quello che nella teoria aziendale vengono definiti comportamenti da leader e da follower. Ma entrambi funzionano a loro modo. E come ha rivelato Calcio e Finanza, le big italiane hanno incassato in termini di ricavi un miliardo in meno rispetto alle omologhe della Liga, e la metà rispetto a quelle dellaPremier League nelle stagione 2019/20 e 2020/21, le due colpite dal Covid (con una differenza che, stadi aperti, può essere addirittura maggiore).
La Premier League si fonda sulla sua grande capacità di produrre ricavi. Sia in virtù dei grandi contratti sui diritti televisivi (sia interni che esteri), sia in virtù della grandi capacità di marketing dei propri club, che furono i primi a sondare i mercati dell’Estremo Oriente e non ultimo un passato di potenza coloniale che significa per molati paesi anche lontani ancora un legame con il Regno Unito. Non solo, ma anche la grande propensione al consumo del popolo inglese (superiore a tutti gli altri Paesi europei) fa si che nel matchday i ricavi sono rilevantissimi.
Tutto questo negli anni ha prodotto un circolo virtuoso per cui migliori infrastrutture portano maggiori guadagni e quindi maggiori investimenti sui giocatori e quindi trofei. Con il risultato di bilancio che slavo eccezioni (come l’Everton o il Derby) i club chiudono gli esercizi in utile. Non a caso a Londra si mormora “The Premier League has breaken away” (la Premier League si è staccata) proprio a sottolineare come il torneo inglese non ha paragoni in termini economici con gli altri nel vecchio continente (si pensi che l’ultima in Premier nel 2020/21 ha guadagnato in diritti tv quanto l’Inter scudettata) e già, complice le grandi proprietà americane presenti, si pensa a una NBA calcistica dove tuti i migliori (o quasi) giocheranno oltre Manica. E non a caso il processo per la vendita del Chelsea sta vedendo miliardari statunitensi mettersi in fila per accaparrarsi la proprietà della società londinese, proprio perché attratti dalla redditività dei Blues.
In termini di governance la Premier non è molto distante dalla Lega Serie A visto che come a Milano anche a Londra, come spiega il regolamento della Premier League, “ogni club ha diritto a un voto e ogni cambiamento di norme e grande contratto commerciale necessita della maggioranza dei due terzi delle società, ovvero di 14 voti per essere approvato”. Ma la virtuosità economica nei vari club e l’idea di molte proprietà di sviluppare sempre più simile alle leghe americane fa la differenza tra Premier League e Serie A.
La Liga, come si diceva sa di essere un follower e come tale non copia pedestremente quando succede in Inghilterra. Innanzitutto all’associazione partecipano le squadre della prima e seconda divisione iberica (20 per La Liga, 22 per la seconda serie) e questo, in un sistema di voto capitario, fa sentire meno il peso dei grandi club. Non è un caso infatti che quella spagnola è l’unica ad avere un presidente, Javier Tebas, che conta quasi, se non alla stessa maniera, dei presidenti delle grandi società. Ed è proprio grazie a questa solidità che Tebas da anni, puntando sull’appoggio dei club medi e piccoli, organizza e sviluppa il movimento spagnolo, internamente e all’estero, come un prodotto unico, nonostante l’opposizione dichiarata dei due suoi maggiori membri, ovvero il Real Madrid e il Barcellona. Per paradosso poi proprio Blancos e Blaugrana, che per la loro storia sono condannate ad acquistare i supercampioni, sono poi quelli che forniscono i migliori testimonial a Tebas per promuovere il prodotto La Liga.
Soprattutto però La Liga è probabilmente il torneo europeo ad avere il complesso di norme finanziare più stringente per partecipare al torneo, sia per quanto riguarda l’equilibrio finanziario di ogni singolo club sia per il tetto salariale. È discesa da qui per esempio la necessità del Barcellona di vendere Messi.
E ITALIA, FRANCIA E GERMANIA?
In questa situazione è evidente come la Lega Serie A non ha diposizione né la potenza di fuoco economico della prima né la struttura aziendale della seconda e la susseguente velocità decisionale. La Lega Serie A per esempio fu la prima a sviluppare l’idea dell’entrata dei fondi di investimento, ma poi lo stesso fondo CVC, interessato a fare business in Italia, ha investito prima ne La Liga e poi nella Ligue 1 ma non nella Serie A. Questa testata augura al neoeletto presidente di Lega Serie A Lorenzo Casini i migliori auguri di buon lavoro ma è evidente che sino ad ora l’associazione che unisce i club della nostra massima serie è sembrata più una agorà dove una fazione cerca di prevalere sulle altre in nome dei propri interessi particolari piuttosto che un ente dedito allo sviluppo di un prodotto. Giovedì la Lega Serie A ha approvato la riforma dello statuto, una decisione salutata quale gesto di unità da parte dei membri della Lega stessa ma la strada appare ancora lunga.
Ma se la Big 5 stanno diventando le Big 2 è anche palese come pure Germania e Francia non stiano messe bene. E non a caso in quei due paesi per Bayern e Psg si sta iniziando a parlare di campionato non allenante, cosa che per anni ha lamentato anche l’Ajax nei confronti del torneo olandese e sotto sotto lo si diceva anche per la Serie A negli anni recentissimi del dominio assoluto della Juventus. In particolare sono state pesanti le parole pronunciate in settimana dall’ex gloria nonché ex amministratore delegato del Bayern Karl-Heinz Rummenigge al magazine Kicker, “ la Bundesliga non può reggere il passo della Premier League. Dal punto di vista del Bayern il futuro sarà più difficile. Il virus ha prodotto danni enormi e le squadre inglesi hanno multi miliardari alle loro spalle”. L’ex bomber è arrivando anche a mettere in dubbio la norma del 50+1 che sta alla base della governance del calcio tedesco. “Al Bayern siamo sempre stati dell’idea che ogni club deve essere di libero se adottarlo oppure no”.
UN VERO CAMPIONATO DELL’UNIONE EUROPEA
In questo quadro è lecito interrogarsi se iniziare un processo che possa portare a un campionato dell’Unione europea sia una blasfemia. Un torneo, beninteso, che non ricalchi il modello chiuso della Superlega ma che sia un campionato vero e proprio con promozioni e retrocessioni e con le proprie serie inferiori. È evidente che si tratterebbe di un percorso non privo di ostacoli visti i contratti in essere tra i vari player del settore e le difficoltà normativi, ma potrebbe essere l’unico modo per contrastare lo strapotere sempre più forte della Premier League con i cui club (così come con quelli svizzeri o russi se e quando verranno riammessi nel consesso sportivo) le squadre della Ue tornerebbero ad incrociarsi nelle competizioni “internazionali”. Si tenga presente che quest’anno secondo i bookamkers la finale di Champions League più probabile è Manchester City-Liverpool e se questo avvenisse si tratterebbe della terza finale tutta inglese in quattro anni dopo Liverpool- Tottenham del 2019 e Chelsea-Manchester City del 2021. Solo nel 2020 – l’anno eccezionale del mini torneo di Lisbona – nessuna squadra di sua maestà giunse all’ultimo anno. Una tendenza nettissima e in un certo qual modo preoccupante.
A Bruxelles in questi giorno ovviamente le preoccupazioni sono altre ma sotto sotto a qualcuno non dispiace l’idea. Pur sapendo che non sarebbe un progetto facile – basti pensare che proprio in questi giorni è naufragato il progetto della Beneliga, ovvero l’idea di fondere in uno i tornei belgi e olandesi – in sede europea sanno benissimo che questi due anni di pandemia e la guerra in Ucraina hanno dimostrato se mai ce ne fosse stato il bisogno che l’Europa potrà sempre meno permettersi di agire in ordine sparsi nel grande scacchiere internazionale dominato da Russia, Stati Uniti e Cina e con l’imminente arrivo dell’India.
Di qui l’esigenza di creare un idem sentire, un comune sentimento europeo nella popolazione. E se c’è una cosa che lega tutti gli Europei – per quanto divisi tra l’anima germanica, slava, greca e latina del Vecchio continente, per quanto separati dalle diverse religioni di appartenenza o da un passato da Paesi nel blocco occidentale oppure in quello dell’ex Patto di Varsavia- è la passione per il calcio. Nulla come un torneo veramente continentale da giocarsi regolarmente e non negli spazi ora dedicato alle coppe unirebbe l’interesse dei vari popoli. E d’altronde non sarebbe la prima volta che lo sport verrebbe utilizzato per motivi geopolitici: basti pensare alla Diplomazia del ping-pong che contribuì negli anni settanta del secolo scorso allo scioglimento della tensione tra Cina e Stati Uniti.
[…] [FOOTBALL AFFAIRS] Premier sempre più lontana. A quando un Campionato Ue? Calcio e Finanza […]