Football Affairs, l'opinione di Luciano Mondellini

“La seconda fase di Elliott tra stadio e interesse dei mercati.” Così un mese fa questa rubrica aveva titolato il suo spazio settimanale spiegando il bivio al quale era arrivato il fondo statunitense proprietario del Milan. La società di investimento guidata da Paul Singer, spiegava il pezzo, ha iniziato un percorso di risanamento robusto – «quest’anno la società chiuderà con una perdita di 50-60 milioni con l’obiettivo del pareggio tra qualche anno» – e siccome è nei fatti senza debiti vi è la possibilità di vendere il club e incassare il guadagno.

Erano i giorni in cui iniziavano a circolare indiscrezioni sulla possibile cessione del club di via Aldo Rossi. Soprattutto dopo che Giorgio Furlani, Portfolio Manager di Elliott e consigliere d’amministrazione del Milan, a inizio marzo, intervenendo al Business of Football Summit organizzato dal Financial Times a Londra aveva spiegato che la società era tornata a destare interesse sui mercati internazionali. «Mai pensato ad azionisti di minoranza? La risposta breve è no, non ci abbiamo mai pensato. Però in molti ci hanno contattato perché avevano interesse nel club, ma finora non c’è mai stato nulla di concreto», aveva spiegato il manager alla kermesse londinese.

Le indiscrezioni arrivate in quegli stessi giorni a Calcio e Finanza parlavano di possibile alienazione del club per un valore di oltre un miliardo a soggetti nordamericani (che in realtà potrebbero ancora esserci). Mentre, a conferma delle parole di Furlani, che hanno bussato alla porta di Elliott più soggetti, la pista emersa ieri parla di Investcorp, società del Bahrain tra i cui investitori figurano non solo ricche famiglie dello Stato del Golfo ma anche tramite una quota del 20% Mubadala, fondo sovrano di Abu Dhabi (almeno secondo l’ultimo bilancio disponibile datato giugno 2021).

A quel tempo non trovammo conferme alle indiscrezioni pervenuteci e a esplicita domanda, Elliott rispose che non c’era intenzione di vendere a meno di offerte irrinunciabili. E’ evidente che a questo punto la domanda è: il miliardo di valutazione riportato da Bloomberg è sufficiente per far traballare Elliott? Ieri Calcio e Finanza ha spiegato che Elliott incasserebbe in termini di guadagno netto circa 300 milioni detraendo i soldi investiti. E secondo quanto risulta a questa testata le valutazioni al vertice della società di investimento guidata da Paul Singer sono in corso.

Secondo quanto trapela, Elliott pensa di poter estrarre ancora maggior valore da un club che ha intrapreso una via del risanamento poderosa e senza debiti, con un brand globale e con una rosa giovane se non molto giovane. Il fondo è anche convinto che a San Siro, a Sesto San Giovanni o in qualche altra zona nei pressi di Milano, la squadra presto giocherà in uno stadio moderno che gli consentirà maggiori ricavi da matchday.

D’altro lato v’è anche da dire che Elliott ha azionisti ai quali rispondere e l’investimento perdura ora dal 2018 (2017 considerando il prestito a Yonghong Li). E cosa probabilmente più importante,  Elliott sicuramente considera Investcorp una società serissima cui affidare il Milan nel caso di vendita.

Sullo sfondo permangono però dei nodi che sarebbe sbagliato sottacere: il primo riguarda il perché una società araba voglia investire un miliardo in un club, per quanto glorioso e dal brand mondiale, appartenente a un movimento, quello della Serie A, che non più tardi di qualche mese fa è stato definito «un casino» da Amanda Staveley, numero uno operativo del Newcastle nonché socio del fondo saudita PIF (altra società di investimento araba quindi). Insieme, infatti, Staveley e PIF avevano guardato all’Inter prima di acquisire il sodalizio inglese. E dalle parole della manager inglese era emersa una grande preoccupazione per il modo in cui il calcio è gestito in Italia più che per la situazione finanziaria dell’Inter, che comunque è sicuramente peggiore di quella del Milan, soprattutto per quanto concerne l’indebitamento.

Il Milan, insomma, per quanto sia la società più vincente in campo internazionale della Serie A, sconta anch’esso un “rischio-paese” derivante dal giocare in Italia. Proprio oggi questa testata ha pubblicato un’indagine dalla quale emerge come negli ultimi anni le big della serie A hanno registrato ricavi pari circa la metà di quelle di Premier e come il divario con i top club de La Liga spagnola si sia allargato a un miliardo

Non solo, ma per quanto la volontà di Elliott di dotare il Milan di un nuovo stadio sia ferma e intransigente e per quanto l’offerta del sindaco di Sesto San Giovanni stia diventando sempre più allettante, non va dimenticato come la partita per il nuovo San Siro si stia intricando sempre di più. Soprattutto dopo la pubblicazione da parte del comune del bando per il dibattito pubblico che impone addirittura un periodo di sei mesi per predisporre e gestire un piano di comunicazione e informazione al pubblico.

Molti osservatori pensavano infatti che dopo la rielezione del sindaco di Milano Giuseppe Sala a Palazzo Marino, sede del Comune del capoluogo lombardo, si sarebbe proceduti spediti verso il nuovo impianto, invece ogni giorno spuntano ostacoli, comitati, pareri di personaggi illustri e no che sembrano riportare il tutto alla situazione iniziale. E la partita del nuovo stadio in altre città, ha visto impantanarsi imprenditori di vaglia, sempre statunitensi: a Roma James Pallotta per anni ha lottato invano per un nuovo impianto per la società giallorossa prima di vendere e tornare a Boston.

Non certo da ultimo le nuove norme sul Fair Play Finanziario. Se infatti le regole precedenti permettevano a una nuova proprietà un extra budget con cui rilanciare le squadre nei primi anni (grazie al cosiddetto voluntary agreement), ora con le nuove regole questa opportunità è molto limitata e i club italiani sono, per ammissione stessa dell’UEFA, quelli più indietro per rientrare nei paletti delle nuove norme.

Va detto che secondo quanto calcolato da Calcio e Finanza il Milan tra i grandi club storici (Atalanta esclusa) è quello messa meglio stando agli ultimi dati disponibili, ma di lavoro da fare c’è ne ancora molto. E questo non potrà che pesare sui piani di una possibile grandezza.

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