Football Affairs, l'opinione di Luciano Mondellini

La kermesse di Qatar 2022, una delle edizioni più discusse della storia dei Mondiali di calcio, terminerà con la partita tra Argentina e Francia. Quale delle due Nazionali si aggiudicherà la coppa potrà cucirsi la terza stella sulla propria casacca e issarsi al quarto posto nella graduatoria mondiale di tutti i tempi dietro al Brasile, cinque volte vincitore, e Italia e Germania, ex aequo al secondo posto con quattro Mondiali ognuna.

Non solo, ma la partita che andrà in onda domani sarà la prima finale iridata – quantomeno nei dopoguerra – in cui gli alfieri principali delle due formazioni, le due stelle indiscutibilmente più lucenti, ovvero Lionel Messi per l’Albiceleste e Kylian Mbappé per i transalpini, sono compagni di squadra nel club. Un club, il Paris Saint-Germain, di proprietà del Qatar, ovvero lo Stato che ha organizzato la stessa kermesse e che negli ultimi tempi è stato probabilmente il maggior finanziatore del calcio mondiale, considerando i circa 221 miliardi di dollari che si stimano siano costati questi Mondiali e gli ingentissimi investimenti del PSG sul mercato, dove, oltre ai succitati Messi e Mbappé giuocano tra gli altri Neymar, Hakimi, Sergio Ramos, Donnarumma solo per citarne qualcuno.

In termini strettamente calcistici la partita di domani segnerà un ideale passaggio di consegne tra il tramonto dell’era Messi, probabilmente il giocatore più forte degli ultimi 15 anni – opinione strettamente personale e con tutto il rispetto per Cristiano Ronaldo-, e quella che sarà caratterizzata dalla stella di Mbappé. Senza dimenticare però che qualora dovesse vincere la Francia il numero 10 transalpino arriverebbe ad avere vinto due Mondiali da protagonista a meno di 24 anni. Un traguardo che forse nemmeno Pelé ha raggiunto. Perché se è vero che il brasiliano (nato il 23 ottobre 1940) è diventato bicampeao all’età di nemmeno 22 anni, è altrettanto vero che nell’edizione del 1962 saltò molte partite causa infortunio e non fu tra i protagonisti assoluti del secondo successo mondiale della Selecao.

IL QATAR TRA I MONDIALI E IL QATARGATE

In termini statistici, invece, è lecito ipotizzare che da lunedì la FIFA e enti vicini al Qatar inonderanno i media di tutto il mondo per spiegare quanto sia stata di successo questa edizione dei Mondiali. Non ci si farà mancare nulla: dal numero di spettatori negli stadi al numero di biglietti venduti sino ai dati sull’audience mondiale che ha visto la rassegna tra televisione e altri strumenti. Un traguardo sicuramente non scontato ma che sicuramente gode del fatto che il pallone sta diventando sempre più lo sport più popolare in tutti gli angoli del pianeta.

In termini geopolitici, però, i timori che circondavano questa edizione certamente non si sono sopiti. Anzi. Se mai sono aumentati. Non solo perché le morti dei lavoratori nei cantieri degli stadio non sono terminate non terminate nemmeno durante il periodo delle partite. Ma anche perché mentre in Qatar le partite le facevano da padrone, a Bruxelles è esploso il cosiddetto Qatargate. La polizia ha scoperchiato una sorta di vaso di pandora su un enorme giro di tangenti pagate dal Qatar ad esponenti del Parlamento europeo, tra i quali esponenti di punta come la vice presidentessa greca Eva Kaili trovati dalla Polizia belga letteralmente con sacchi di soldi nelle proprie case, che erano stati pagati per perorare la causa del Paese del Golfo e migliorare l’immagine del Qatar nel Vecchio continente. L’indagine non promette nulla di buono e il timore sempre più fondato è che si allargherà a numerosi altri esponenti delle istituzioni UE.

Insomma se ingenuamente qualcuno pensava che i Mondiali 2022, con il loro portato di sportwashing (ovvero l’abbellimento dell’immagine di un Paese attraverso lo sport), fossero la testa di ponte che anticipava un movimento più massiccio e pericoloso di pulitura di immagine dello stato arabo, si è invece scoperto che questa possibile offensiva era già ben presente nel cuore dell’Europa.

Non a caso, in settimana il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha fatto notare un dubbio non privo di fondamento. «Qui si mette in dubbio se alcuni provvedimenti siano fortemente influenzati da economie straniere. Voglio essere certo che quando facciamo scelte di politiche industriali, siamo consapevoli di quello che succede in Europa», ha spiegato il numero uno di Viale dell’Astronomia in occasione dell’Assemblea generale di Confagricoltura.

Il Qatar, come per altro molti Paesi del Golfo, ha infatti il problema di dover diversificare i propri investimenti. Sinora queste nazioni, o meglio le loro famiglie al potere, hanno accumulato enormi patrimoni soprattutto grazie al petrolio e ai suoi derivati. Ma queste ricchezze ora hanno bisogno di essere investite in settori diversi soprattutto all’estero, sia per la classica politica, sempre oculata, di diversificazione del portafoglio sia in previsione del fatto che piano piano il mondo occidentale sta abbondonando la mobilità termica e questo sicuramente una diminuzione della domanda di petrolio (anche se nel caso specifico del Qatar va detto che è anche un grandissimo produttore di gas, materia prima che avrà un grande mercato in Occidente dopo la guerra Russia-Ucraina).

Per investire all’estero però questi stessi Paesi hanno bisogno di essere accettati dai sistemi economici delle nazioni europee e nordamericane e certamente lo scarso rispetto dei diritti umani e dei principi democratici non aiutano società in questo senso. Detto questo ovviamente pecunia non olet e il Qatar è già molto inserito, in maniera legittima sia chiaro, nel contesto economico europeo, sempre assetato di capitali. Per esempio è tra gli azionisti principali nel colosso automobilistico tedesco Volkswagen, nella cui compagine azionaria è il terzo socio con una quota di oltre il 10%, oltre ad avere grandi interessi a livelli immobiliari in grandi città europee come Milano e Parigi.

Nel contempo chi conosce la Bosnia Erzegovina sa benissimo come la ricostruzione di Sarajevo sia avvenuta soprattutto con i fondi provenienti dal Qatar e che una delle conseguenze sia stata la sempre più massiccia islamizzazione di una metropoli che nella storia era stata caratterizzata per le molteplicità delle culture che la vivevano: quella cattolica, quella ortodossa e quella ebraica oltre ovviamente a quella musulmana.

Quasi per uno scherza nel destino, visto lo scoppio in questi giorni del Qatargate, la Bosnia Erzegovina, che negli anni recenti è stato tra i Paesi europei il maggior fornitore di foreign fighter alle organizzazioni radicali islamiche, in settimana ha ottenuto dal Consiglio europeo lo status di Paese candidato a entrare nell’UE, approvando le conclusioni del Consiglio Affari Generali e la raccomandazione formulata della Commissione europea nel settembre scorso. Si dice che la decisione sia stata spinta per sottrare la Bosnia a una eventuale influenza russa. Ma l’interrogativo è: sarà capace di sottrarla all’influenza del Qatar? Oppure sarà un altro modo per il Paese del Golfo di penetrare in Europa e nelle sue istituzioni?

Come si vede le relazioni tra Qatar e istituzione europee somigliano sempre più a una matassa inestricabile di interessi, politici economici e anche sportivi.

Tornando agli aspetti più strettamente calcistici, in questa sede è soprattutto lecito domandarsi se lo scoppio del Qatargate possa portare alla fine del fenomeno dello sportwashing da parte dei Paesi del Golfo. Ovviamente molto dipenderà dall’indagine delle autorità belghe in una investigazione che è solo all’inizio ma che da quanto sembra è destinata ad allargarsi molto con contorni ancora difficili da prevedere nella loro grandezza.

I POSSIBILI EFFETTI SUL MONDO DELLO SPORT

Quel che è certo però è che lo sport è uno dei pilastri della strategia di diversificazione degli investimenti di lungo periodo dei Paesi del Golfo. E salvo che l’indagine di Bruxelles non porti a evidenze eclatanti e schiaccianti sarà difficile che questi investimenti e questa strategia non proseguano.

Non a caso lo stesso Qatar sta valutando la candidatura per le Olimpiadi 2036, e l’Arabia Saudita, da poco riavvicinatasi politicamente allo stesso Qatar (con il quale per altro condivide una triste nomea in termini di trasparenza e di rispetto dei diritti umani), dopo aver acquistato il Newcastle in Premier League ha detto di voler anch’essa ospitare un Mondiale. Senza dimenticare che in Arabia Saudita già si è disputata negli ultimi anni la Supercoppa italiana, con l’ultima sfida in programma il prossimo 18 gennaio tra Milan e Inter a Riyadh e che inoltre lo stesso Paese arabo punta a rinnovare l’accordo con la Lega Serie A per ospitare il trofeo nei prossimi anni.

Ma soprattutto non va dimenticato come l’uomo forte del Qatar nel calcio europeo, ovvero il presidente del PSG Nasser Al Khelaifi, sia diventato, dopo la vicenda Superlega, il numero uno dell’ECA, l’associazione dei principali club del Vecchio continente. E nello stesso tempo non va nemmeno scordato come le proprietà americane di Liverpool e Manchester United stiano valutando la vendita di questi club e uno dei motivi, come spiegato pubblicamente dall’allenatore dei Reds Jurgen Klopp, è il timore che le proprietà statunitensi, per quanto ricche e abili, non potranno tenere il passo con la potenza di fuoco finanziaria di società possedute da Stati sovrani quali per esempio PSG, Manchester City e adesso anche il Newcastle.

Insomma i prodromi di una scalata o di un’opa (se si vuole usare il linguaggio finanziario) dei Paesi del Golfo sullo sport e soprattutto sul calcio mondiale ci sono tutti. E l’Europa e le sue istituzioni dovranno stare molto attente perché non vengano sottratte loro le leve del potere dello sport più popolare al mondo. Disciplina per altro che è anche un asset di inestimabile valore patrimoniale per il Vecchio continente visto che Mondiali a parte, tutte le altre maggiori competizioni calcistiche (con le loro ricadute in termini di entrate e di indotto) sono basate in Europa. E a differenza di altri settori industriali non sono delocalizzabili in Paesi con il minor costo del lavoro.

Il pericolo altrimenti è che si arrivi addirittura a rimpiangere il progetto Superlega -sicuramente sbagliato per la sua chiusura verso il basso. Un progetto che in settimana ha ricevuto una batosta quasi definitiva dall’avvocatura generale della UE, ma che, per quanto errato nelle fondamenta, aveva quantomeno il merito di mantenere le leve del potere nel Vecchio continente. Sia chiaro: questa testata sin da subito non ha sposato la causa della Superlega visto che il potere sarebbe stato condiviso soltanto tra i club più potenti, ma è un dato di fatto che qualora fosse andata in porto l’operazione, la stanza dei bottoni del pallone non si sarebbe spostata dall’Europa.

Ora, alla luce non solo dei vari scandali che si sono susseguiti nelle varie organizzazioni calcistiche internazionali ma soprattutto alla luce di quanto emerso ed emergerà a Bruxelles, bisognerà stare con gli occhi ben aperti. Perché se è vero che il Parlamento Europeo si è dimostrato permeabile a influenze esterne, la sensazione è che FIFA e UEFA lo possano essere maggiormente.

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