Una regola che impedisca ai club di Serie A di spendere più del 70% di quanto incassato con i diritti tv in stipendi. E’ questa la proposta di Demetrio Albertini, ex vicepresidente della Figc, ora è coordinatore delle attività sportive di Expo e consulente della curatela del Parma Calcio, per stimolare le società di calcio a incrementare le altre fonti di ricavo e non essere così eccessivamente dipendenti dal denaro garantito dalle televisioni. Secondo l’ex centrocampista del Milan e della Nazionale, che lo scorso anno aveva sfidato Carlo Tavecchio nella corsa alla presidenza della Figc, «le pay-tv nel calcio hanno offerto una grande occasione, è l’Italia che non ha saputo sfruttarla».
«All’inizio c’era solo un posticipo domenicale», spiega Albertini riferendosi all’ingresso delle pay-tv nel calcio italiano nel 1993, «la novità fu accolta bene da giocatori e tifosi, in un momento in cui le partite intere le vedevi solo con l’Italia o nelle coppe. Nelle case non c’era Internet, spuntavano le prime parabole. Poi la percezione della straordinarietà dell’evento è stata annacquata dall’ampliamento dell’offerta: oggi vediamo tutto in diretta e ci sembra naturale. Siamo il secondo paese al mondo per introiti tv (nel 2013/14 la Serie A ha avuto un fatturato netto di 1,855 miliardi: 987 milioni arrivano dalle tv, il 53%) ma solo il quarto a livello commerciale. Perdiamo su tutti gli altri fronti».
«Le tv hanno offerto un’occasione, decuplicando gli introiti», osserva ancora Albertini in un’intervista a Repubblica, «Bisognava investirli in strutture e servizi. Un grosso equivoco è pensare che siano state le televisioni a svuotare gli stadi, ma all’estero non è così: la gente che assiste dal vivo allo spettacolo è parte di esso. A chi interesserebbe mandare in onda un concerto senza pubblico? La nostra classe dirigente si è cullata su questi incassi sicuri: ha trascurato il tifoso, ha provocato la propria dipendenza dai diritti, permesso a chiunque di fare il presidente in A solo gestendo questi introiti».
L’ex vicepresidente federale si è soffermato anche sull’impennata degli ingaggi dei calciatori seguita all’avvento delle televisioni a pagamento «È aumentato il costo del lavoro nel complesso, ma perché ci sono troppi giocatori nelle rose. Il flusso di cassa dei diritti non basta neppure a pagare tutti. Io inserirei il divieto di spendere oltre il 70% dei soldi delle tv in stipendi. Un modo per costringere i club a incrementare altri ricavi e introdurre criteri di sostenibilità aziendale. Il linguaggio è cambiato tantissimo, si eccede in superlativi per vendere il prodotto. I giocatori sono star, ma qui c’entrano i social network: la partita in diretta esalta ancora le qualità sportive, mentre sui social puoi essere popolare anche se non sei tanto bravo a giocare. Il calendario è un problema: all’estero, viene stilato in anticipo e le modifiche sono molto rare, sai sempre quando si gioca. Così rispetti chi si è abbonato allo stadio e anche chi si è abbonato alla pay-tv».