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(Insidefoto.com)

Un dato singolare emerge dall’ultima ricerca dell’osservatorio CIES: Spagna e Francia sono sul podio delle nazioni che esportano più giocatori.

Il dato è curioso perchè da una parte è lecito aspettarsi che nazioni come Brasile e Argentina figurino al top, ma stupisce che in Europa due delle 5 nazioni calcisticamente più evolute siano tra quelle che più esportano.

Se infatti per le nazioni Sudamericane l’approdo europeo è un auspicio per qualsiasi giocatore, diverso è l’approccio di un calciatore europeo alla professione sportiva, laddove il primo obiettivo è affermarsi nel proprio club, il secondo diventare giocatore di primo livello, possibilmente ingaggiato in una delle principali leghe europee, il terzo quello di garantirsi comunque una carriera da calciatore.

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L’Italia in questa classifica figura solo al 25esimo posto. Un risultato frutto probabilmente della forza storica del nostro campionato che da sempre è stato importatore di talenti e non certo esportatore, e che anche in un periodo storico non brillante come l’attuale non ha perso questa peculiarità.

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Un secondo aspetto che bisogna inoltre considerare riguarda i settori giovanili. Mentre quelli francesi e spagnoli da sempre lavorano in un’ottica di mercato a 360° considerando il giovane sia come potenziale prodotto per la prima squadra che come calciatore da valorizzare in vista di una carriera professionistica, per quanto riguarda l’Italia l’atteggiamento dominante sembra essere quello di considerare il giovane come “merce di scambio”.

La prospettiva non è quindi di andare ad accasarsi in una delle maggiori leghe professionistiche (questo studio CIES fa riferimento alle 31 maggiori) ma quella di iniziare lunghe e tortuose avventure nelle serie minori italiane, con scarse possibilità di ri-emersione.

Una differenza, questa, sostanziale che emerge anche ricordando un’altra ricerca CIES, quella dedicata ai giovani valorizzati dai club.

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La classifica qui sopra evidenzia quanti giocatori cresciuti nel vivaio sono attualmente impegnati nei 5 maggiori campionati europei. E non è un caso se 4 club tra i primi 10 sono spagnoli e ben 9 dei primi 20 francesi.

Un salto di qualità anche culturale, su cui il nostro calcio deve riflettere.

Da questo punto di vista l’impressione è che mentre in Francia e Spagna si riesca a ragionare nell’ottica di un mercato europeo e mondiale, in Italia non ci sia la stessa capacità di pensare al futuro del calciatore cresciuto nel vivaio come una risorsa vera.

Con il risultato che sempre più giovani calciatori finiscono nel dimenticatoio delle serie dilettantistiche, quando potrebbero invece far fruttare la loro esperienza con annate all’estero ben più formanti e gratificanti sul piano umano e sportivo.

Una situazione che era giustificabile quando il calcio minore italiano poteva garantire mezzi e salari superiori a molte altre leghe europee, ma che alla luce dei recenti dati non è più in alcun modo giustificabile.

In questo ragionamento c’è anche un fondamento etico. Quali responsabilità hanno le società, che dopo aver richiesto sacrifici ai giovani calciatori (che non sempre riescono a conciliare gli stessi con lo studio) non riescono loro a garantire un posizionamento professionistico nel sistema calcio europeo?

Qui il dibattito è aperto, certo è che una maggiore presa di coscienza del fenomeno darebbe spazio a interessanti sviluppi, sia nel ripensare la formazione dei giovani calciatori che il loro collocamento una volta esaurita (per mille ragioni) la loro più o meno lunga parabola sportiva.

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