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Numero società di calcio professionistiche in Italia – La proposta del presidente della Figc, Carlo Tavecchio, di ridurre del 30% il numero delle società di calcio professionistiche in Italia, rilancia con forza un tema di fondamentale importanza per l’industria del calcio italiano: quello della riforma della piramide che dalla Serie A scende fino alla Lega Pro e dei format dei campionati.

Parlando a margine di Kickoff, il tradizionale evento di fine stagione, in cui la Figc si apre ad altri settori della società italiana e non solo (economia, cultura, scienza, professioni, politica, sport e giornalismo) per discutere del futuro del calcio italiano, Tavecchio ha sottolineato come in Italia ci siano «molte squadre professionistiche, più di quelle che possiamo sopportare». Attualmente infatti il calcio professionistico italiano vede 102 società: 20 in Serie A, 22 in Serie B e 60 in Lega Pro.

Riducendone il numero del 30%, come auspicato da Tavecchio, si scenderebbe (arrotondando per difetto) a 70 club.

Ma come potrebbero essere riorganizzati i campionati e la piramide del professionismo se fosse davvero questo il numero delle società professionistiche in Italia.

Già in passato su Calcio e Finanza avevamo provato a lanciare qualche spunto per ragionare su una possibile riforma complessiva del sistema, a partire da un cambio radicale del format della Serie A e a scendere degli altri campionati. Spunti che le parole di Tavecchio rendono oggi ancora più attuali.

La riduzione del numero dei club professionistici potrebbe infatti aprire la strada a una riduzione anche del numero delle squadre in Serie A e nelle altre due leghe. L’ipotesi, suggestiva quanto di difficile attuazione (visti gli interessi economici in ballo) è quella avanzata dal presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ovvero il ritorno della Serie A a 16 squadre, come quando negli anni ’80 la Juve di Platini, la Roma di Falcao, il Napoli di Maradona e infine il Milan di Sacchi, con Gullit e Van Basten, e l’Inter del Trap e di Matthäus, dominavano la scena.

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DIRITTI TV. Posto che il problema del “paracadute” per chi retrocede diventa più drammatico tanto più quanto il campionato è ricco (anche la Premier league dibatte da anni su questo annoso problema) in serie A vi è un duplice aspetto: accanto alle garanzie sarebbe auspicabile anche un riequilibrio dei ricavi. Calcio e Finanza aveva provato a immaginare, ad esempio, come sarebbe qui l’applicazione del riparto all’inglese adottato dalla Premier (con rapporto 1-1,57 tra prima e ultima).

La serie A a 16 squadre in questo senso sarebbe quella che garantirebbe le rinunce minori ai grandi club fermo restando la garanzia degli 837 milioni da dividere. Insomma: ridurre numericamente le fette per mantenere dimensioni accettabili e garantire al contempo le quote di solidarietà alla serie B.

Antitrust boccia pacchetti diritti tv serie a
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Qualcuno può obiettare: meno partite, meno ricavi. Non è vero. Le tv pagano per trasmettere partite appetibili. Non a caso un esperto di diritti tv come Riccardo Silva (Mp & Silva) aveva – già prima di De Laurentiis – auspicato una serie A a 16 squadre.

E non a caso i piccoli club sono i primi ad volere che i diritti tv siano trattati collettivamente (in Italia come in Spagna, per dire): solo così si garantiscono un ricavo più importante (benché molto inferiore) di quello che avrebbero trattando da soli. Quando ci hanno provato (a trattare da soli o anche ad autoprodursi) hanno sempre perso soldi oppure sono andati incontro a fallimenti come quello della piattaforma Gioco Calcio (anno 2003, chi se la ricorda: durò operativamente un mese e legalmente un anno).

EVENTI SPORTIVI. Una serie A a 16 squadre avrebbe anche un maggior interesse dal punto di vista sportivo. Innanzitutto perchè il valore della singola partita aumenterebbe nell’economia di un campionato con 30 giornate anzichè 38 come ora. Aggiudicarsi i 3 punti quando la quota scudetto è a 90 è un conto, farlo con il 30% in meno di monte-punti a disposizione dà tutto un altro risalto all’evento. Del resto – si sa – il problema dei campionati a girone unico è che all’aumentare del numero di squadre (e quindi di partite) diminuisce il valore sportivo del singolo evento.

Inoltre la riduzione porterebbe come primo effetto all’eliminazione dei turni infrasettimanali che notoriamente hanno meno valore anche economico: non a caso il computer nel giorno dei calendari viene istruito per evitare i big match in occasione delle gare infrasettimanali.

IL FORMAT. Per tenere altissima la competizione si potrebbe poi optare per alcuni espedienti di fine campionato ad esempio un play off a 4 squadre per l’ultimo posto disponibile in Europa (come già accade nell’Eredivisie, il campionato olandese) oppure la retrocessione virtuale della penultima che andrebbe a giocarsi i play off con le squadre di serie B.

Diritti TV Serie A - confronto con gli altri campionati in Europa
Il valore dei diritti tv del calcio europeo

Significherebbe qualificare 3 squadre (presto 4) alla Champions League e 3 alla Europa League finendo quindi (con il play off) per dare obiettivi fino alla ottava-nona squadra (il 50% o più del totale) di un campionato che con 16 squadre e 30 giornate sarebbe sempre interessantissimo.

IL PARACADUTE. Il problema retrocessione sarebbe diverso se anche la serie B venisse riformata, magari portata essa stessa a 16 squadre. Anche in questo caso minori fette ma più sostanziose dai diritti tv, ma anche un aumento dell’interesse televisivo della competizione con una promozione diretta e 7 squadre ai playoff (più la penultima di serie A) per un finale di stagione davvero spettacolare. Non è la stessa cosa televisivamente raccogliere pubblicità su un Empoli – Carpi in cui ci si gioca la serie A ed uno in cui ci si giocano 3 di 114 punti totali per la permanenza in categoria in contemporanea con altri 4-5 incontri domenicali.

LA PIRAMIDE. Uno dei problemi del calcio italiano è che la piramide è poco sviluppata: se si fallisce si va in serie D ma se si è bravi in due anni si può tornare in serie B. Significa che ad esempio nessuno ha interesse a salvare il Parma in B evitandogli la D perchè tanto i 22 milioni richiesti (di fatto per il titolo sportivo) sono una cifra abnorme rispetto a quello che si può spendere soffrendo qualche anno in categorie inferiori per risalire.

Diverso se – come in Inghilterra – una retrocessione facesse ripartire dall’undicesimo livello.

Per questo serve una diversa strutturazione dei campionati: ad esempio 4 categorie a girone unico (A, B, C1 e C2) prima di una serie D strutturata su tre livelli anzichè su uno solo e un campionato interregionale con altri 3 livelli prima dei campionati regionali.

Tavecchio commissario Lega Serie A
Carlo Tavecchio (Insidefoto)

L’obiettivo: rendere più ripida la piramide e stringere l’imbuto delle promozioni/retrocessioni per difendere i valori nel lungo periodo con categorie in grado di generare un impatto meno traumatico in caso di retrocessione.

Le difficoltà di alcuni club di Lega Pro è tale anche perché sono state messe 60 squadre tutte sullo stesso piano con l’illusione della promozione in B come premio economico quando invece sarebbe stato più salutare dividere queste squadre in almeno 3 diversi livelli.

Rendere più lungo il percorso di ascesa verso la A e la B ridarebbe valore alle grandi piazze (vedi Parma) e rimetterebbe al centro dell’attenzione i tifosi. Le parole di Lotito a Iodice erano fastidiose per i metodi e i messaggi subliminali che contenevano e la posizione di potere occupata da chi le pronunciava, ma avevano un fondo di verità: l’ascesa di tante piccole squadre in sè non è auspicabile perchè volenti o nolenti queste squadre non saranno mai “piazze vere” per il calcio ma solo piccoli feudi di ricchi signori.

Non auspicabile e, a ben vedere, nemmeno tanto democratica al di là della retorica della Cenerentola che va a giocare coi grandi (che sarebbe tale solo se il Chievo schierasse giocatori nati nel quartiere, non alle condizioni di mercato attuali dove risulta quella che negli ultimi anni ha impiegato meno giocatori del proprio settore giovanile). A meno che per democrazia sportiva non si intenda il coinvolgimento di piccole piazze solo perchè lì esistono ricchi feudatari locali in grado di scommettere per qualche anno sul calcio.

Quando non esistevano i proventi tv i presidenti erano più incentivati ad acquistare i club dei capoluoghi di provincia perchè la fetta più importante dei ricavi (benchè esigua rispetto all’esborso complessivo) era legata alla biglietteria e agli sponsor (più attratti dalla grande piazza) anzichè ai diritti tv che in fondo sono uguali per tutti nel senso che premiano ugualmente se ti chiami Carpi anzichè Modena, Sassuolo anzichè Reggiana o Cittadella anzichè Padova.

In conclusione: la riforma della serie A avrebbe successo solo se accompagnata da una riforma complessiva della piramide del calcio italiano. In caso contrario rimarrebbe solo una operazione isolata del tutto incapace di ridare linfa a un movimento che ha bisogno prima di tutto di idee e qualità oltre che di un progetto di lungo respiro. Ma nello specifico la serie A a 16 squadre avrebbe l’effetto di riportare il nostro calcio ai fasti degli anni ’80 con altissima competitività ed un livello di interesse moltiplicato, nonostante il numero inferiore di partite.

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Un bresciano a Manchester. Tra giornalismo economico e football scouting